mercoledì 1 ottobre 2025

Strumenti, non esseri umani.

Lo spunto per questa riflessione me l’ha offerto il bellissimo film “le assaggiatrici”, (in tedesco nel film, ma titolo italiano) del regista Silvio Soldini e basato sul romanzo omonimo di Rosella Postorino, pubblicato da Feltrinelli nel 2018, che a sua volta si ispira alla vicenda reale di Margot Wölk, l’ultima delle cosiddette assaggiatrici di Hitler.


In breve, l’azione si svolge nell’autunno del 1943. Rosa (interpretata da Elisa Schlott), giovane evacuata dalla Berlino bombardata e senza cibo, si rifugia presso i suoceri in un villaggio prussiano isolato vicino al confine orientale.  Scopre che vicino c’è il quartier generale di Hitler, la “Tana del Lupo” (Wolfsschanze).  Rosa e altre donne del villaggio vengono “arruolate” (coercitivamente) come assaggiatrici dei pasti destinati a Hitler, per verificare che non siano avvelenati. Ogni boccone può essere potenzialmente mortale. 

Tra queste donne nascono amicizie, alleanze, segreti. Rosa fatica a inserirsi nel gruppo per la sua estraneità (è berlinese, nuova lì). C’è anche una componente sentimentale / di tensione: Rosa si avvicina a un ufficiale delle SS, rapporto emotivamente e moralmente complicato, che le provoca senso di colpa.


Al di là della narrazione filmica, la verità storica è che un gruppo di donne, tedesche, libere e sane, furono tenute sotto controllo dalle SS, costrette a rischiare la vita quotidianamente per proteggere Hitler da un possibile avvelenamento. Di loro, solo una sopravvissuta parlò, tardi e quasi per liberarsi del peso della memoria.


Dunque, non si trattava di prigionieri di guerra, o di qualche appartenente a minoranze sgradite. No, Erano normalissime ragazze tedesche, peraltro spesso vedove di guerra e che quindi avevano già pagato un prezzo severo per sostenere i progetti del nazismo. Nonostante questo, furono considerate carne sacrificabile, nell’interesse della salute del fuhrer.


Ebbene, mi sono chiesto: quante volte noi stessi declassifichiamo gli altri (e non solo) a rango di strumenti sacrificabili? Quanto spesso nella nostra vita comune usiamo gli altri senza provare alcuna pena per il loro dolore, la loro sofferenza, la loro paura così tanto uguale alla nostra?

La risposta purtroppo è: spesso, troppo spesso.


Le assaggiatrici incarnano la riduzione assoluta dell’individuo a strumento: il loro corpo non appartiene più a loro stesse, ma diventa barriera biologica tra il tiranno e la sua paura. È la negazione della dignità umana: la vita di molte donne vale meno della sopravvivenza di un solo uomo.


Chi trasforma un altro essere umano in strumento non ignora che quello prova dolore, paura, desiderio. Anzi, lo sa benissimo. Ma “spegne” selettivamente la risonanza con quell’umanità, come se fosse un interruttore. È un autismo empatico: la facoltà di comprendere resta, ma viene sospesa o anestetizzata per servire un fine utilitario.


Questo atteggiamento non appartiene solo ai dittatori o ai carnefici nei grandi drammi storici: è inscritto nella struttura della nostra specie. Lo vediamo nelle relazioni quotidiane: nel collega sfruttato come strumento per il proprio avanzamento; nell’amico usato come specchio per rafforzare il proprio ego; nell’animale ridotto a oggetto di consumo; nel pianeta stesso, trattato come giacimento da svuotare.

La dinamica è la stessa: vedo l’altro, so che è vivo e sente, ma scelgo di ignorarlo perché i miei interessi contano di più.


Tendiamo a relegare questo fenomeno al “male assoluto”: i nazisti, i gulag, i genocidi. È più rassicurante credere che sia eccezione, follia, mostruosità. Ma il fatto che sia così diffuso e quotidiano dimostra che non è un’anomalia: è parte integrante dell’umano. La differenza non è tra chi ne è capace e chi no, ma tra chi se ne accorge e chi lo nega.


Già Kant ci metteva in guardia: l’imperativo categorico vieta di trattare l’altro mai solo come mezzo, ma sempre anche come fine. In realtà, la storia mostra che questa è la regola più infranta. Ogni società, anche la più civile, è costruita su gerarchie che trasformano qualcuno in strumento di qualcun altro.


Le donne costrette a mangiare per Hitler rappresentano un caso estremo, ma paradigmatico. Non sono state scelte perché “colpevoli”, né perché “sacrificabili” per natura. Sono state trasformate in strumenti pur restando, agli occhi di chi le dominava, esseri umani come tutti, tanto da instaurare perfino storie “d’amore”. È questo che brucia: la lucida consapevolezza che l’altro soffra non ci impedisce di usarlo.


Ogni civiltà, dalla più arcaica alla più sofisticata, si regge su rapporti di potere che prevedono che qualcuno venga usato per il vantaggio di qualcun altro. Schiavi nell’antichità, servi della gleba nel medioevo, proletari nell’era industriale, precari nell’era digitale. Il grado di raffinatezza cambia, ma la struttura resta: la comunità si fonda su una piramide in cui chi sta in alto consuma la vita di chi sta in basso. Con indifferenza, con ignavia. Basti pensare ai contemporanei fatti ucraini o palestinesi (così come di tantissime altre parti del mondo di cui nemmeno si parla): tutti si affannano in interpretazioni geopolitiche raffinatissime, si avversano sulle diverse sponde politiche... ma di quella gente che muore e delle loro atroci sofferenze fondamentalmente interessa poco. Sono strumenti, anche loro.


La modernità si è raccontata una favola: l’umanesimo, i diritti universali, la dignità dell’uomo. Ma in realtà la società ha semplicemente reso più invisibile il meccanismo della strumentalizzazione. Non vediamo lo sfruttamento che regge i nostri beni di consumo, la sofferenza dietro la tecnologia che usiamo, le catene invisibili che legano il Sud del mondo al Nord. La differenza rispetto a Hitler è solo la scala e la trasparenza.


La civiltà cammina producendo ricchezza a vantaggio di pochi, pochissimi, grazie alla nostra capacità di provare empatia selettiva solo a cerchi concentrici e solo in base alla nostra utilità: ci commuoviamo per chi ci somiglia o ci è vicino; ignoriamo chi è lontano o diverso; usiamo chi è anonimo.

È un meccanismo evolutivo, ma socialmente produce giustificazioni per sistemi di sfruttamento sempre più complessi.


Ci crediamo “più civili” perché non vediamo più la violenza nuda. Non c’è il boia in piazza, non ci sono le assaggiatrici sotto minaccia armata. Ma le logiche sono le stesse: c’è chi rischia la vita nelle miniere di cobalto per garantire la batteria del nostro smartphone, c’è chi lavora in condizioni di semi-schiavitù per produrre i nostri vestiti, c’è chi viene sacrificato alle crisi economiche o ambientali. La violenza è solo dislocata e resa invisibile.


Da Platone in poi, ogni teoria della polis ha sempre implicato che alcuni fossero strumenti. Anche nelle utopie più illuminate (si pensi a Campanella o a Moro), l’ordine sociale comportava che qualcuno sacrificasse parte della propria libertà o del proprio valore per il bene comune. La vera differenza non è tra civiltà e barbarie, ma tra chi lo riconosce e chi lo maschera.


La vicenda diventa allora simbolo: la civiltà è il banchetto del potente, e i corpi degli altri servono a garantirgli che quel banchetto non gli sia fatale. Cambiano i nomi e i contesti, ma la logica è costante: la civiltà vive di “assaggiatrici” invisibili, sempre nuove e sempre sostituibili.


La conclusion è assai amara.

L’uomo non crea società per superare la violenza, ma per organizzarla e renderla funzionale. Ogni civiltà è, in ultima analisi, un sistema di distribuzione della sofferenza: chi deve sopportare i pesi perché altri possano godere dei frutti.


Diritti, etica, religioni, filosofie: sono veli che coprono questa dinamica, non per eliminarla, ma per renderla accettabile. Servono a trasformare la brutalità in narrazione di giustizia, la disuguaglianza in ordine, lo sfruttamento in dovere.


La differenza tra i secoli non è morale, ma ottica. Più la civiltà avanza, più raffina i modi per rendere invisibile la sofferenza su cui poggia. Non ci sono più le assaggiatrici davanti agli occhi, ma ci sono lavoratori nascosti, nature devastate, comunità intere sacrificate fuori dallo sguardo.


Siamo tutti complici: non possiamo vivere senza trasformare altri in strumenti. Ma per non soccombere alla colpa, ci raccontiamo che non è così, che la nostra civiltà è “migliore”. In questo senso, la menzogna non è un tradimento della civiltà: è la civiltà.


Le assaggiatrici di Hitler non sono solo un dettaglio storico: sono l’allegoria spietata della condizione umana. La loro figura ci mostra che non c’è civiltà senza vittime invisibili. Non eccezione, ma regola. Non aberrazione, ma struttura.


Ci resta solo una domanda: anche se non possiamo eliminare ogni forma di strumentalizzazione, possiamo almeno scegliere di non essere noi stessi i carnefici, i complici silenti, o i consumatori indifferenti?


Enrico Franceschetti

Questo testo è rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Sei libero di riprodurlo e distribuirlo, a condizione di: Menzionare l'autore e la fonte originale; Non usarlo per scopi commerciali; Non alterarlo o trasformarlo.