lunedì 14 aprile 2025

Il Mistero Pasquale: 

Un Viaggio Sapienziale nel Cuore dell'Umano

La Settimana Santa, momento culminante dell'anno liturgico cristiano, celebra gli eventi fondamentali della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo. Oltre al suo valore primario per la fede e la storia religiosa, questa sequenza di eventi si manifesta come depositaria di significati ulteriori, di carattere esoterico e sapienziale. L'analisi di tali dimensioni rivela il Mistero Pasquale quale potente archetipo del percorso di trasformazione inerente alla condizione umana e al cammino spirituale dell'anima individuale. Esso può essere inteso come il dramma dello spirito che si confronta con la materia, dell'eterno che interagisce con il tempo, del Sé divino latente nell'essere umano – talvolta definito il "Cristo Interiore" – che tende a manifestarsi attraverso le complessità dell'esistenza.

Il percorso simbolico ha inizio con un'immagine di apparente trionfo: l'ingresso a Gerusalemme nella Domenica delle Palme. Questo evento può rappresentare la decisione cosciente dell'individuo di intraprendere una fase decisiva del proprio sviluppo interiore, accettando di confrontarsi pienamente con la realtà incarnata, il proprio mondo psichico e il contesto esteriore. L'acclamazione popolare suggerisce un riconoscimento iniziale, forse anche un'illusoria percezione di facile successo, ma le stesse palme, antichi simboli di vittoria sulla morte, già prefigurano la prova suprema che attende colui che intraprende tale cammino.

Questa fase prosegue nei giorni immediatamente successivi con un'indispensabile opera di discernimento e purificazione interiore. Episodi come la cacciata dei mercanti dal Tempio possiedono una risonanza universale: evocano l'imperativo etico e spirituale a creare uno spazio sacro interiore, liberandolo da attaccamenti egoici, mercificazioni dell'anima, pensieri inautentici. Si tratta di un confronto necessario con le proprie zone d'ombra, la cui dinamica è esemplificata dalla figura di Giuda, archetipo delle istanze psichiche che, mosse da paura, ignoranza o brama di gratificazioni effimere, possono ostacolare la realizzazione del potenziale più elevato dell'individuo. In parallelo, questi giorni rappresentano anche il tempo dell'assimilazione degli insegnamenti spirituali, delle intuizioni che orientano il cammino, simboleggiati dalle parabole e dai discorsi attribuiti a Cristo in questa fase.

Il Giovedì Santo introduce una soglia iniziatica di grande intensità. L'Ultima Cena e l'istituzione dell'Eucaristia alludono alla possibilità di una comunione profonda, un nutrimento spirituale diretto che offre sostegno all'anima. La Lavanda dei Piedi si configura come un gesto emblematico di umiltà radicale: il principio superiore che si china a purificare, riconoscere e integrare gli aspetti più umili, terreni, spesso rimossi ("i piedi") della natura umana. È un atto preparatorio all'esperienza della vulnerabilità totale. Successivamente, l'esperienza nel Getsemani raffigura la "notte oscura dell'anima", il confronto archetipico con l'angoscia esistenziale, la paura della dissoluzione e l'attaccamento alla volontà egoica di fronte al Mistero insondabile. La celebre preghiera "non la mia, ma la Tua volontà sia fatta" esprime il culmine della resa necessaria, dell'abbandono fiducioso che dischiude la fase successiva, quella della Passione propriamente detta.

Qui si incontra il termine "Passione", la cui densità semantica merita attenzione. Derivando dal verbo latino patior, esso significa non solo "soffrire", "patire", ma anche "sopportare" con forza e, in una sfumatura essenziale, "permettere", accogliere attivamente un evento. Applicato al dramma del Calvario, "Passione" denota quindi non soltanto la sofferenza fisica ed emotiva subita, ma anche l'atto supremo di resistenza interiore e di accettazione trasformatrice. È la capacità di dimorare nella sofferenza senza esserne distrutti, discernendovi un significato ulteriore. Come Simone Weil ha profondamente esplorato nel concetto di malheur, è talvolta nell'accettazione attenta e consapevole della sventura che può manifestarsi un'apertura al trascendente.

Il Venerdì Santo immerge nella dinamica della dissoluzione, rappresentata simbolicamente dalla Via Crucis. Questo percorso non è meramente una sequenza di eventi dolorosi, ma si offre come paradigma del confronto umano con il limite e della possibilità di trasformazione attraverso la prova. L'assunzione della "croce" diviene emblema dell'accettazione del proprio fardello esistenziale, delle proprie responsabilità karmiche o storiche. Le cadute ripetute simboleggiano l'inevitabile incontro con il fallimento, la debolezza, lo scoramento; la loro ricorrenza sottolinea la natura spesso ciclica delle prove e la necessità della perseveranza nel rialzarsi. Gli incontri lungo il cammino – con la figura materna (l'amore compassionevole), con il Cireneo (l'aiuto esterno, talvolta imposto), con la Veronica (l'empatia gratuita che rivela l'autenticità profonda) – illustrano le complesse dinamiche relazionali che intervengono nel processo, offrendo sostegno, sfida o rivelazione. Lo spogliamento delle vesti raffigura la perdita radicale delle identificazioni esterne, dei ruoli sociali, delle maschere difensive, conducendo a uno stato di nudità esistenziale e vulnerabilità essenziale, preludio alla morte dell'ego. Infine, la crocifissione: l'essere "fissati" alla realtà della sofferenza, l'acme del processo di dissoluzione (solve alchemico, la fase della Nigredo), la morte iniziatica dell'io separativo come condizione indispensabile per un rinnovamento profondo.

Al culmine della dissoluzione segue il Sabato Santo, il tempo del silenzio, della permanenza nel sepolcro. Non si tratta di un intervallo vuoto, bensì di uno spazio liminale di cruciale importanza. È il momento dell'integrazione latente, della gestazione nell'oscurità (corrispondente all'Albedo alchemica), in cui le energie liberate dalla fase precedente possono riorganizzarsi in una nuova sintesi. La tradizionale "Discesa agli Inferi" può essere interpretata come l'esplorazione coraggiosa delle profondità dell'inconscio individuale e collettivo, il recupero di frammenti psichici perduti o rimossi, la riconciliazione con l'Ombra. Questo lavoro interiore è propedeutico a una rinascita autentica.

Si giunge così all'alba della Domenica di Pasqua, la Resurrezione. Nell'interpretazione sapienziale, questo evento cardine trascende la mera rianimazione fisica per assurgere a simbolo della trasmutazione radicale della coscienza. Essa non significa un ritorno allo stato precedente, ma l'emergenza in uno stato dell'essere qualitativamente nuovo e superiore. Rappresenta la manifestazione della Vita indistruttibile che ha integrato l'esperienza della morte. Questa nuova coscienza "risorta" si caratterizza per la liberazione dalle costrizioni egoiche, per una potenziale visione non-duale capace di armonizzare gli opposti, per una compassione profonda scaturita dalla sofferenza attraversata (le ferite gloriose), e per la realizzazione del Sé immortale, il Principio Cristico giunto a piena espressione (Rubedo alchemica). È la vittoria sulla paura della morte e sulla frammentazione interiore.

Questo potente racconto archetipico della trasformazione umana ha trovato significative risonanze nel pensiero filosofico, psicologico ed esoterico. Carl Gustav Jung, ad esempio, ha interpretato l'intera vicenda come una straordinaria rappresentazione del processo di individuazione, il percorso dell'io verso l'integrazione psichica e la realizzazione del Sé. Joseph Campbell ha collocato la narrazione cristica all'interno dello schema universale del "Viaggio dell'Eroe", presente in innumerevoli tradizioni mitologiche. Rudolf Steiner ha attribuito al "Mistero del Golgota" un significato centrale per l'evoluzione spirituale dell'umanità e del cosmo. Tali prospettive, pur diverse, convergono nel riconoscere nel ciclo pasquale una mappa universale della trasformazione interiore.

Dunque, la Settimana Santa, quando osservata attraverso la lente della sapienza perenne, si rivela molto più di una commemorazione religiosa. Essa costituisce un insegnamento fondamentale, una guida simbolica che illumina le dinamiche intrinseche all'esistenza umana: la necessità del confronto con la prova, il potenziale trasformativo della sofferenza coscientemente vissuta, il processo archetipico di morte e rinascita interiore, e l'immenso potenziale di evoluzione e realizzazione spirituale insito nell'essere umano. Offre un modello universale per comprendere e navigare le sfide più profonde della vita, invitando a riconoscere questo stesso dramma sacro all'interno del proprio percorso individuale e a trarne ispirazione per un cammino consapevole. 


Enrico Franceschetti (AI assisted by Google Gemini)

domenica 22 dicembre 2024

DEDICO QUESTO SEMPLICE POST A TUTTE LE MIE DOLCISSIME AMICHE E SORELLE SENZA LE QUALI NULLA SAREBBE COLORATO E MUSICALE COM'È
Le donne che abbracciano
Siete mai stati abbracciati da una donna?
Non intendo quegli abbracci fugaci, appena un contatto di guancia, un tocco distratto. E nemmeno mi riferisco agli abbracci misurati, quasi coreografie di circostanza, dove il timore di sgualcire un abito prevale sul calore umano.
E nemmeno mi riferisco a quelli infuocati, che cercano la fusione dei corpi, ma che spesso si concentrano più sul desiderio che sulla vera connessione emotiva, sono i migliori...
No. Io penso a quelli dati di slancio, che ti travolgono e ti fanno traballare. Quelli che ti stringono l'anima, che ti proteggono, ti contengono in un vortice di emozioni, dove il sorriso o le lacrime sono un'unica, immensa, espressione.
Senti il battito del loro cuore contro il tuo, una coperta calda e morbida, senza riserve, senza remore, un calore che si propaga ovunque.
In quell'abbraccio, apparentemente fragile, c'è un'accoglienza totale, un avvolgerti oltre ogni tenerezza.
Quegli abbracci lì, solo le donne li sanno dare. Perché in quegli abbracci c'è tutto l'abbandono, tutta la forza, tutta la dolcezza e tutta quella meravigliosa magia nel portare il corpo come fosse un mantello di seta di stelle intessuto di calore, di protezione, di amore incondizionato, che solo una donna conosce.
Non è solo un contatto, ma un avvolgimento totale, come un grembo, un rifugio sicuro, un "ci sono io" silenzioso che nutre l'anima e conforta il cuore. Un'accoglienza incondizionata, dove fragilità e forza si fondono in una magia inesplicabile. Una testimonianza di amore e protezione che... non si dimentica più.
Non ci sono poesie o musiche o dipinti che possano descrivere l'impeto travolgente e tenero di quell'abbraccio. Bisogna solo riceverne uno in dono...
Auguro a tutti, per questo Natale, un abbraccio così. Un abbraccio, per sempre.




martedì 17 dicembre 2024

"Campione di Sconfitte: Il Manuale (Non Richiesto) per Trasformare Ogni Minima Azione in un Disastro Colossale"

"In una società dove tutti si allenano per l'oro olimpico della perfezione, io mi sono specializzato nel lancio del giavellotto... contro il muro. Con ottimi risultati, devo dire. Il muro, ovviamente, è ancora lì. Io un po' meno. Sembra che la parola d'ordine sia 'successo', declinata in ogni sua forma: successo professionale, successo social, successo persino nel fare la spesa al supermercato senza dimenticare il sacchetto riutilizzabile. Nei telefilm (di solito americani, ma la tendenza si sta espandendo a macchia d'olio) ogni padre chiama il proprio figlio 'campione' e la propria figlia 'principessa'. Nessuno che usi termini tipo 'tesoro', 'amore mio'... naaa!!! Troppo melenso. I sentimenti valgono poco nel mondo delle competizioni, dove l'unica cosa che conta è arrivare primi. E così, anch'io sono diventato un campione. Un campione di sconfitte, di gaffe, di figuracce, di 'epic fail'. Potrei scrivere un manuale su 'Come trasformare ogni minima azione in un disastro colossale'. Anzi, forse lo farò.
Ho iniziato presto, da piccolo, ad affinare le mie doti di 'problem maker'. Ricordo una volta, a tavola, avevo osato esprimere un'opinione sulla bontà di un piatto e del suo condimento. Mio padre mi guardò con lo stesso sguardo che useresti per un alieno appena atterrato nel tuo giardino e tuonò: 'Non siamo in parlamento! Qui decido io!!'. Da quel giorno, mangio solo con olio e rassegnazione. E ho anche imparato una lezione fondamentale: 'Quando sei martello batti, se sei incudine statti!!!'. Io, ovviamente, ero l'incudine. E lo sono rimasto.
Perché, vedete, pensavo che una volta cresciuto sarei diventato io il 'martello'. Magari non un martello pneumatico, ma almeno un martelletto da carpentiere. Invece, mi ritrovo a essere un'incudine di ultima generazione, schiacciata non più da mio padre, ma da un'alleanza apparentemente invincibile formata da mia figlia e mia moglie. Se prima subivo in silenzio, ora vengo amorevolmente 'consigliato' su come dovrei comportarmi. E i 'consigli', ovviamente, si trasformano in ordini. In casa ormai mi chiamano 'il comodino parlante'. Mi interpellano solo per recuperare il telecomando sotto al divano o per fare rifornimento di snack. Per il resto, resto lì, immobile, ad accumulare polvere (e chili). Il mio potere decisionale si limita alla scelta del gusto del gelato al supermercato… e anche lì devo stare attento a non contrariare i gusti della 'coppia regnante'.
E vogliamo parlare del lavoro? Tempo fa gli avvocati erano temuti e rispettati. Nella Napoli di una volta venivano interpellati per risolvere beghe e piccoli conflitti 'a norma di legge', tanto li si riteneva saggi ed imparziali. Io che ho fatto? Ho studiato, ho faticato da praticante per più di dodici ore al giorno ed ora… ora mi trovo clienti che mi chiedono di ratificare quello che hanno trovato su qualche penoso sito pseudolegale, scritto in un italiano improbabile e pieno di errori grammaticali, e mi chiedono di 'darci una controllatina'. Come se io fossi un correttore di bozze gratuito. Altro che 'nobile arte forense'! Ormai mi sento più vicino al mondo del 'copia e incolla' che a quello dei codici.
Potrei continuare a lungo, ma temo che a questo punto abbiate già sviluppato una certa empatia per la mia condizione. O forse una forte compassione. O, peggio ancora, un irrefrenabile desiderio di cambiare pagina. L'ultima scoperta che ho fatto è che anche Facebook, con i suoi algoritmi infallibili, mi ignora. Preferisce le foto di torte a forma di unicorno e i balletti improbabili delle influencer. Evidentemente, le mie riflessioni sulla crisi della società del pensiero o sulle avventure di Babbo Natale non sono abbastanza 'likeable'. Mi tratta come un parente scomodo alle feste di famiglia. Mi mette in un angolo e mi ignora.
Quindi, ditemi, amici, colleghi, sconosciuti di internet: sono il Forrest Gump delle catastrofi? Il Don Chisciotte delle cause perse? O semplicemente un uomo che ha capito che, in fondo, la vita è una gigantesca candid camera e io sono il protagonista inconsapevole? Datemi una risposta. O, meglio ancora, un like. Almeno quello.
P.S. Per la cronaca, questo post l'ha scritto una AI. Non sia mai che mi prenda il merito di di un qualche preziosissimo "like", donatomi più per compassione che per convinzione...!

domenica 6 ottobre 2024

Dio e la creatura: una relazione intricata, faticosa, forse impossibile... ma al contempo un profondo bisogno inesaudito dalla creazione in poi


La consapevolezza di sé e dell'ambiente in cui vive, induce la Creatura a interrogarsi sulla propria esistenza, dunque sulla sua origine, dunque su un possibile Creatore. Per l'Uomo, la risposta a queste domande ha impegnato pensatori di ogni epoca e civiltà, dalle riflessioni di Platone e Aristotele nella Grecia classica, alle indagini di Confucio e Lao Tzu nell'antica Cina, dalle illuminazioni di Buddha e dei saggi Upanishad in India, alle elaborazioni teologiche di Sant'Agostino e Tommaso d'Aquino nel Cristianesimo medievale, fino alle critiche nella filosofia moderna. Spesso tutto ciò comportando conflitti aspri e violenti, ma senza una soluzione definitiva.


In questa riflessione, si propone una nuova ipotesi per rispondere al quesito sull'esistenza di un Creatore: definire Dio come "tendenza". Tale idea apre a nuove interpretazioni del divino. Cosa significa esattamente "Dio come tendenza"? È utile considerare come questo concetto si inserisca nel panorama del pensiero filosofico e religioso. Già alcuni pensatori, pur con differenze significative, hanno toccato temi affini alla "tendenza" verso Dio: Aristotele con il suo concetto di "telos", ovvero la tendenza di ogni essere verso la realizzazione della propria natura, Plotino e i neoplatonici con la loro visione di un universo emanato dall'Uno, da cui ogni creatura proviene e a cui aspira a tornare, i mistici cristiani e orientali con la loro ricerca di unione con il divino, attraverso l'esperienza estatica e la contemplazione, e persino Kierkegaard con la sua enfasi sul "salto di fede", inteso come atto libero e personale di affidamento a Dio.


Approfondendo ulteriormente questa ipotesi, emerge il ruolo cruciale della consapevolezza della Creatura nel definire la propria "tendenza" verso Dio.  L'ipotesi qui avanzata si distingue per alcuni aspetti fondamentali, come l'impossibilità di raggiungere una completa fusione con il Creatore e il ruolo centrale della consapevolezza della Creatura nel definire la "tendenza". Non si tratta semplicemente di seguire un istinto o una predisposizione innata, ma di un processo che si attiva quando la Creatura comprende di essere parte di un sistema complesso e chiuso, preordinato da un'entità che la trascende. Tale consapevolezza genera una serie di interrogativi sulla propria esistenza, sulla propria origine, sul proprio ruolo nel cosmo. La "tendenza" verso Dio si manifesta quindi come una ricerca di senso, un desiderio di comprendere il fine ultimo della propria esistenza e di connettersi con qualcosa che vada oltre i limiti del proprio mondo.


Tra i filosofi che si sono avvicinati alla concezione di "Dio come tendenza", Hegel merita una particolare attenzione. Nella sua filosofia, Dio è concepito come Spirito Assoluto, un'entità dinamica e in continua evoluzione che si manifesta nella storia attraverso la coscienza umana. L'uomo, nel suo percorso di conoscenza, "crea" Dio come culmine del processo di autocoscienza. Questa visione presenta delle affinità con la nostra ipotesi, in particolare per l'idea di un Dio "in divenire" che si realizza attraverso la creatura. Tuttavia, Hegel ritiene che l'uomo possa raggiungere l'unione con lo Spirito Assoluto, mentre nella nostra concezione la Creatura non può mai identificarsi completamente con il Creatore, a causa della sua natura finita e limitata. Inoltre, Hegel non parla esplicitamente di una "creazione" di Dio da parte della creatura, mentre noi sottolineiamo il ruolo attivo della Creatura nel "plasmare" la propria immagine di Dio.


Tuttavia, questa consapevolezza si scontra con un paradosso fondamentale: la Creatura può concepire l'idea di Dio, formularla nel proprio pensiero, ma non potrà mai conoscerlo completamente né eguagliarlo. Infatti, la Creatura, pur nella sua consapevolezza, rimane intrinsecamente limitata dalla sua natura finita e dipendente. Il Creatore, al contrario, è la fonte stessa dell'esistenza, l'origine di ogni cosa, e come tale rimane per la Creatura un mistero insondabile. L'asimmetria, l'inconoscibilità e la libertà che caratterizzano il rapporto tra Creatore e creatura impediscono una completa fusione. La Creatura può solo tendere verso Dio, cercarlo, avvicinarsi a lui, ma non potrà mai identificarsi completamente con lui, né comprenderne appieno l'essenza. In questo senso, è la Creatura stessa che, nel suo sforzo di comprensione, "crea" Dio, plasmandolo a sua immagine e somiglianza, proiettando su di lui i propri desideri, le proprie paure, le proprie aspirazioni. Come affermava Feuerbach, "Non è Dio che ha creato l'uomo, ma l'uomo che ha creato Dio". Questo paradosso è un elemento fondamentale nella ricerca di Dio, un limite che la Creatura deve accettare e che la spinge a una continua riflessione sul mistero dell'esistenza.


In questo processo di "creazione" di Dio, la Creatura plasma un'immagine divina a propria misura, un Dio che risponde alle sue esigenze, ai suoi desideri, alle sue paure. Questo "Dio immaginato" diventa un punto di riferimento, una fonte di senso, una guida nel cammino di vita. Come afferma Nietzsche, la "morte di Dio" apre la possibilità per l'uomo di diventare "Oltreuomo", creando i propri valori e il proprio senso della vita. Tuttavia, a differenza dell'Oltreuomo che si fa Dio di se stesso, la Creatura che crea Dio non può che immaginarlo come un "sé stesso perfetto", un ideale irraggiungibile, proiettando su di lui le proprie aspirazioni e i propri desideri di pienezza. In modo simile, Jung vede l'archetipo di Dio come una rappresentazione simbolica del Sé, la totalità della personalità, che l'uomo "crea" nella propria mente per dare un senso alla propria esistenza.


La "tendenza" verso Dio è un moto di attrazione verso l'entità causale, un processo di crescita interiore, una ricerca di autenticità e di realizzazione del proprio potenziale.  Immaginando Dio come un "sé stesso perfetto", infinitamente potente,  la Creatura gli attribuisce caratteristiche in qualche modo immaginabili,  pur se amplificate all'infinito.  Si pensi, ad esempio, all'idea  dell'apertura del "terzo occhio", un potenziamento che consente di "vedere" l'invisibile, ma che rimane pur sempre un potenziamento strumentale,  concepibile nella dimensione umana.  Ognuno tenderà dunque a sviluppare ciò che ritiene attribuibile a Dio, e ciò varierà da creatura a creatura, da individuo a individuo.  Questo cammino di crescita è però infinito,  poiché la Creatura,  per definizione priva dei reali attributi di Dio,  non potrà mai  raggiungerli  completamente.  È come  cercare di far incrociare due rette parallele:  la dimensione finita della Creatura e l'infinita  potenza del Creatore  rimarranno  per sempre  separate.  Eppure,  come ci suggerisce il racconto "L'ultima domanda" di Asimov,  Dio,  pur  nella sua inconoscibilità,  è  ciò di cui abbiamo bisogno per giustificare noi stessi e si può trovare in qualunque dimensione, nel suo rapporto fra se stesso e il sistema creato.


In conclusione, la percezione di Dio come tendenza, superando le specificità tradizionali filosofiche e religiose, definisce il bisogno della Creatura di non sentirsi finita, limitata, priva di senso. La focalizza verso l'elevazione, il potenziamento di sé. Offre anche un ulteriore fondamento all'idea della fratellanza fra le creature, poiché ne sottintende la uguale relazione con il Creatore, accomunate dalla medesima "tendenza" verso la trascendenza e la ricerca di senso. La concezione di "Dio come tendenza" non solo illumina il rapporto tra Creatura e Creatore, ma getta anche una nuova luce sulle relazioni tra le creature stesse, invitando a una maggiore comprensione e solidarietà reciproca. Il cammino verso l'infinito è al contempo individuale e collettivo, poiché si sviluppa sì interiormente, ma anche, attraverso l'espressione dell'azione del sé, nella dimensione comunitaria ed universale, sia che si condivida la sete di conoscenza e di elevazione che no.  Questo viaggio è l'unica via attraverso la quale la creatura, in se stessa e come comunità, può cogliere l'opportunità di  crescita, di scoperta e di connessione con il mistero dell'esistenza, un mistero che ci unisce e ci invita a superare i confini della nostra finitezza.

lunedì 23 settembre 2024


E’ autunno.
Ancora una volta torna il tempo che amo, fatto di emozioni più che di sensazioni. Emozioni che si scrivono con i colori, con i profumi, con le luci svanite in ore sempre più piccole, con l’abbraccio dei panni più caldi frettolosamente ripresi dagli armadi nei quali s’erano rifugiati dal soffocante ruggito estivo.
E’ il tempo della memoria, rievocazione di eccessi ed avventure d’estate, di vibranti occasionali amori e dei tuffi in sentimenti audaci e spericolati, obbligatoriamente vincolati ad un tempo specifico oltre il quale porterebbero solo scompiglio e disordine.
E’ il tempo del tramonto, che mai come ora si tinge di echi lontani. Di epoche selvagge ed innocenti, quando l’amore materno cullava e nutriva, garantendo un nido accogliente ma lasciando spazio ai primi ruzzolanti voli. Ci si sentiva liberi, aquile sprezzanti ed orgogliose… quando si era soltanto pulcini mai lontani dallo sguardo che custodisce con amore infinito.
Lo ricordo bene, quel tempo. A Sorrento l’aria si tingeva di profumi squillanti. Mentre il mare, con i suoi primi sussulti, si scagliava su spiagge e scogliere lasciando ovunque pulviscoli di spuma salmastra, ben percepiti dalle narici dei pescatori. Nell’entroterra, l’odore aspro di vinaccia raccontava invece la storia millenaria del succo dei filari scoscesi, di un novello presto in arrivo, festeggiato con brindisi ed amori ridenti.
Le terre scoscese sul mare, poi, si coloravano dei teli distesi sotto agli ulivi affinchè nessun frutto prezioso, in terra abbandonato, potesse rovinarsi. Tutto sembrava dipinto con colori orchestrati per donare stupore, catturare lo sguardo per trattenerlo sull’armonico danzare dei verdi argentei del denso fogliame, dei rossi e dei neri degli umani tendaggi, e dell’azzurro squillante del cielo e del mare, biancheggiati entrambi da nuvole e spume!
Ricordo… ricordo lo strapiombo della Torre di Minerva, talmente proteso sul mare che il suo silenzio poteva essere rotto solo dalle morbide eco di vite lontane. Un grido d’uccello, la voce d’un navigante, si percepiva a chilometri come fossero giusto dietro di te. Era un incanto, una magia che ti avvolgeva annodandoti i sensi, mentre il suono diventava colore, il profumo canzone, il leggero sfiorare del vento, sapore… Eri solo… ma sentivi tutti i pensieri del mondo, tutte le anime dell’universo e affogavi nel turbine della meraviglia incantandoti man mano di più.
La sera, poi, quando la luce scendeva più in fretta, le luci inondavano il borgo dei pescatori, tessendo un reticolo fitto di quello che sarebbe diventato a breve Presepe, nascita di un Dio d’amore che sa solo donare bellezza.
In quelle stradine, ricordo il brusio dei passanti, ancora tantissimi e ben decisi a godersi ogni piacere possibile, e i millecolori delle merci degli artigiani, ben esposte al di fuori delle rispettive botteghe. Rispetto all’estate, si percepiva una nuova e sopravveniente lentezza, un desiderio di assaporare, e non divorare. Anche i passi si facevano più lunghi, come più meditati, e si contavano i selci sporgenti e gli inciampi quasi fossero analoghi a quelli di ogni nostra vita.
Si, quell’autunno era la vita, ora che sono io stesso diventato autunno. Era tutto ciò che durante l’estate esonda e si perde, tutto quello che l’ansia del divorare non consente di assaporare. Era la gioia di tornare, dopo essere andati, sapendo di ritrovare. Che fortuna che era!!!
Ho sempre amato, l’autunno.


martedì 17 novembre 2015

Io c'ero...

... Quel giorno lì, quello in cui il buio è diventato notte invincibile nonostante le sfolgoranti luci di una Ville Lumière bellissima e smarrita.

Ero lì, fra quelle strade, insinuate da un freddo vento novembrino, con le prime foglie dorate a pavimentare i marciapiedi, ed i passanti a stringersi nelle giacche ancora troppo leggere o a ristorarsi nei bistrò, per non sentire l’inverno alle porte, per non sentire la paura alle porte.

Ero lì, quando ho visto sfrecciare a pochi passi da me un’auto nera, a fari spenti, con le ruote urlanti. Magari erano loro, magari no, non lo saprò mai. Ma a poca distanza, uomini e donne già erano bambole di pezza in un tiro al piattello allucinato ed imbecille, erano visi da esplodere a bruciapelo, erano quarti di bestie da offrire in gloria ad un Dio inorridito, mille volte ucciso dall’incredibile, infinita, inspiegabile stupidità dei suoi figli.

Ero lì, cercando rifugio nel Metrò, assordato da sirene, urla e messaggi recitati da altoparlanti gentili ma incomprensibili, di un idioma dolce e musicale ma per me sconosciuto, tenendo per mano mia moglie, guardandola negli occhi per sussurrarci senza parole che avremmo potuto non tornare, che la nostra cucciola avrebbe potuto restare da sola, lontana, senza nemmeno sapere il perchè... così come senza perchè altri cuccioli in quel momento restavano straziati, su un pavimento freddo, distante, troppo distante maledizione!, dal calore delle loro famiglie.

Sono stato lì, siamo stati lì, nelle ore seguenti, in cui una città si è chiusa, spegnendo le luci, chiudendo i portoni, lasciando per strada solo soldati in assetto di guerra e formazione tattica a camminare nel vento, mentre i pochi passanti, addossati a muri incrostati da scritte e graffiti metropolitani, tentavano di essere loro stessi pietre, strada, catrame.
Siamo stati lì, cercando del cibo che ci scaldasse in quelle ore d’angoscia, a litigarci l’ingresso. Entro io, tu sei più importante... se succede qualcosa nostra figlia ha bisogno di te; no, lo sei tu, vado io. Non eroismo ma rassegnata accettazione di un rischio incombente, grave, impossibile da determinare.

Ed ancora siamo stati lì quando, il giorno del giorno dopo, la rabbia per una violenza inumana ha spalancato i portoni, sfondato transenne, riversato uomini e donne in strada, col desiderio di non essere vivi già morti, ma di testimoniare col sangue e la carne che la vita dev’essere libera, che la gioia, la tenerezza, l’amore, devono vincere sul sangue e sulle membra squartate. Terrorizzati ma coraggiosi, tutti per strada, al sole, perchè è meglio piangere pallidi, camminando tremanti ma a testa alta che rintanati al sicuro, sconfitti dalla paura e dalla vergogna.

Ora... ora sono qui, fra le mura protette di casa.

Ma il mio cuore è ancora in quella città, fra quelle strade, con quelle persone, fratelli e sorelle di sangue e dolore e terrore. 

Da oggi io sono parigino, je suis parisienne, io sono chiunque sia offeso, usato, minacciato, ucciso, e voglio urlarlo nonostante la mia umanissima paura, perchè nessuno mai potrà riuscire a farmi essere come non voglio, a farmi odiare, a farmi rinunciare, a farmi nascondere. Mai.

martedì 29 luglio 2014

Dietro gli occhi chiusi

Lo spazio, aperto su se stesso.

Il buio, affollato di echi di immagini, di schegge di persone, luci ed illusioni... il simulacro della vita, pensa Milo, steso sul letto umido del sudore d'agosto.
Cerca il sonno, ma senza successo. Come ogni sera, sente la stanchezza nelle ossa ed il sollievo procuratogli dal distenderle sul duro materasso ortopedico, giunto fin lì all'epoca delle promesse e dei cambiamenti.
Con il fardello del suo quotidiano sulle spalle, nel cuore e nella mente, Milo desidera discendere nell'oblio il più in fretta possibile e, per propiziarlo, tenta di evocare ciò di cui non trova più traccia, non avverte più odore, in quei contorti ed abbacinanti giorni d'estate. Strano come basti questo a spegnere l'anima... eppure tale è il momento di Milo, un momento di tutti i momenti.
Ciò che ha è sempre ciò che non vuole, che non riconosce più perchè è parte invisibile della sua aria, mentre guarda lontano le creste dell'orizzonte cui tende. Quell'aria, Milo la distrugge lentamente, respirandola, trasformandola da siero di vita in uno scarto inerte che induce una morte insapore. Allo stesso modo, ogni passo che compie, ogni traguardo vissuto, ogni costruzione che gli pare di aver realizzato è assorbita e consumata, cacciandone via lo scarto... che resta ai suoi piedi, unica testimonianza di ciò che è per lui e di ciò che è stato. Null'altro, se non scarti.
La sua vita è ciò che essa stessa poi rifiuta, espelle. Spazzatura.
Spazzatura che gli rimane negli occhi, nell'odore che percepisce di sè, nell'ansia che gli sfonda il petto, nel panico ricorrente ed inutile, nel suo personalissimo vuoto quotidiano.
Eppure, l'insopportabile spinta della sopravvivenza lo obbliga a puntare lo sguardo avanti, anche quando l'avanti non c'è. L'insostenibile spinta della sopravvivenza lo obbliga, lo costringe, lo vìola al respiro di quell'aria, aria che non vuole, che vorrebbe espellere per sempre da sè. Lo vuole con tutte le sue forze, esausto, sfinito. Ma non riesce a formare la volontà.
E muore, e rinasce.
Oddio! Lo strazio di una lacerazione di ogni secondo di tutti i minuti... di una esistenza doppia in un doppio universo, dietro gli occhi e poi davanti, nel corrugarsi della realtà.
Osserva, Milo, quella realtà ad occhi chiusi. Ogni sguardo non può fondarsi se non su ciò che ad esso rimane dietro, sul buio nel quale le immagini si imprimono e si memorizzano. Se quelle immagini poi ritornano dietro agli occhi protesi all'infinito, su quella rete spezzata di schizzi di colori-ombre-luci, cosa succede al cuore, al suo cuore?
Dove si rifugia, allora, la sua speranza, il suo bisogno, il suo respiro che è costretto a soffiare ed inspirare di seguito ad ogni seguito?
E dove si annida il conforto, se ciò che respira è solo il prodotto del suo respiro?
Così, nell'oscuro screziato dietro agli occhi chiusi, occorre simulare per rammentare, inventare, raccontare al cuore la storia di una guancia su un golfino di lana pettinata, con l'odore di chi l'ha amato quando non c'era la consapevolezza di essere; occorre integrare, sommare, ideare il contatto di chi ha amato, quando lei non sapeva ancora di poterlo, creando minuti che non sono esistiti e non esisteranno, pronunziando parole mai vibrate, rievocando vissuti mai compiuti, ma vivi, vivi come fossero stati davvero. Sua la gioia, sua la passione, suo quel cuore scoppiato per la semplice felicità di un abbraccio.
Le lacrime pungono, dietro gli occhi, e poi fluiscono, amico mio...
Milo respira un amore vecchio eppure assolutamente nuovo. Entra in lei dolcemente, lentamente, profondo quanto può, dilungando gli attimi come nemmeno un millennio potrebbe, e le parla e l'ascolta spiandone il viso, il sorriso che si esprime nell'espressione che conosce e riscopre senza pause. E' amore, e rivelazione e confidenza in ogni istante, ed è dono ogni singolo movimento e fiato, insieme.
Sente di essere accolto (accolto!), avverte il desiderio di lui in lei, cui stenta a credere tanto è desueto, impossibile. Come un bambino, è un bambino, trema, ma non riesce a non sperare, a non desiderare di poter, anche solo una volta ancora, gioire.
Dentro, un'invasione tiepida, una bolla che esplode lenta, frammentando carezze inesprimibili. Lacrime che scorrono al contrario perchè di gioia e non più di solitudine. E' ancora in lei, l'abbraccia con l'anima, con una sillaba le regala ogni singola stilla della propria vita, di un cuore sezionato, vecchio e ricco di milioni di giornate moltiplicate per le milioni di vite della sua mente.
Inesprimibile ed immensa, l'emozione, trasmessa attraverso il donare dell'amore. Senza parole, senza vibrazioni. E talmente vera da far impazzire.
Rigano il viso, scorrendo veloci, amico mio...
Illusione.
D'improvviso, Milo percepisce il mondo. Lo sente ghermirgli di nuovo il cuore, con la stretta familiare di tutte le ore. I polmoni caccian via l'aria di colpo, come a seguito di un pugno violento al petto.
Da un lato, il ricordo, perentorio, del calore infinito. Dall'altro, solo il freddo del sudore, delle lenzuola stravolte, del cuscino intriso.
La percezione si sdoppia in un universo contrario, insopportabile nella contraddizione e Milo sbanda, ondeggia, rammenta mani sentite ma mai strette, la sua pelle, il suo corpo, il suo profumo, le parole del suo amore. La pressione ha il sopravvento e spezza il delicato filo fra anima e spirito, liberandolo per condannarlo al vuoto di un riflesso senza fine.
E' un attimo. In qualche modo si ricongiunge. Milo piega le spalle e va, il suo doppio, va.. come sempre.

...e poi finiscono... finiscono solo per ricominciare, amico mio...