venerdì 8 agosto 2025

L'Occidente Anestetizzato: Anatomia di una Crisi Silenziosa

 

L'Occidente, e in particolare l'Europa, vive in una condizione di anestesia di massa che rende l'uomo incapace di un qualsiasi vero cambiamento interiore. Non è una deriva casuale, ma il risultato di decenni di scelte politiche, economiche e culturali volte a eliminare ogni frizione con la realtà. L'essere umano non cresce senza ostacoli e senza mancanza; eppure, abbiamo costruito un mondo dove il disagio è percepito come un'anomalia da rimuovere immediatamente, non come parte integrante del percorso di vita. Questa anestesia, che ci avvolge come un sudario confortevole, si regge su cinque pilastri, i muri di una prigione dorata.

1. Il Comfort Permanente. Dalle cure mediche al cibo, dal calore domestico all'intrattenimento, ogni bisogno è prontamente soddisfatto. Chi ne è privo viene visto non come parte della durezza naturale della vita, ma come vittima di un'ingiustizia. Questo stato di agio ininterrotto ha atrofizzato la nostra capacità di sopportare le difficoltà, sostituendo la resilienza con la richiesta costante di comodità.

2. L'Iperstimolazione Continua. Siamo sommersi da una valanga ininterrotta di immagini, notifiche e contenuti mordi-e-fuggì, un rumore costante che distrugge la nostra capacità di attenzione e di introspezione. Eppure, proprio l'attenzione e la quiete interiore sono gli unici strumenti per un autentico lavoro su di sé. Abbiamo scambiato la profondità con la superficialità.

3. La Narrazione Unica. Scuola, media e cultura popolare propongono una visione semplificata e filtrata del mondo. Non si incoraggia il pensiero critico, ma l'accettazione di un'unica visione della realtà. Ciò riduce la necessità di sviluppare un pensiero autonomo, minando le fondamenta di ogni percorso di conoscenza.

4. L'Individualismo Edonista. L'io e il suo piacere momentaneo sono diventati l'unica unità di misura. Concetti come comunità, destino collettivo e sacrificio sono svuotati di senso, relegati a vecchi cliché di un'era passata. Si vive per l'istante, dimenticando il passato e non costruendo il futuro.

5. L'Assenza di Prove Autentiche. Le istituzioni, tanto religiose quanto laiche, non propongono più veri percorsi trasformativi. Offrono spiritualità "light" e un attivismo superficiale che non tocca le radici dell'essere. Hanno perso la capacità di forgiare l'anima, limitandosi a decorare il guscio vuoto.

Il risultato è un uomo che non è solo impreparato al cambiamento, ma non percepisce nemmeno la necessità di cambiare.


La Crisi: Il Martello che Potrebbe Annullare il Vaso

In questo contesto, ogni appello alla rinascita rischia di restare lettera morta. La storia, purtroppo, ci insegna che l'unico shock capace di spezzare questo sistema anestetico è una crisi profonda e radicale: una guerra, un collasso economico, un disastro energetico o una pandemia con alta mortalità. Non si tratta di emergenze gestibili, ma di eventi che obblighino le persone a rinunciare a comfort, abitudini e certezze in modo immediato e irrevocabile.

Una crisi del genere, tuttavia, non garantisce automaticamente una rinascita. Può produrre due scenari diametralmente opposti:

  • Se l'uomo ha ancora un patrimonio morale e culturale vivo, il trauma può forgiare una generazione nuova, più consapevole e radicata.

  • Se invece la crisi lo coglie svuotato spiritualmente, la reazione sarà quella di un animale spaventato. Si manifesterà un tribalismo cieco, un ritorno al buio. Le conseguenze non sarebbero solo egoismo e violenza, ma un nuovo interregno medievale, dove la caduta di ogni struttura sociale porterebbe a carestie, malattie e una lotta selvaggia per la sopravvivenza. In un tale scenario, ogni progresso e ogni forma di umanità potrebbero essere annientati in un bagno di sangue, portando a un'autodistruzione senza precedenti.


Il Dramma del Terreno Arido

Il vero dramma è che nessuno, oggi, sta preparando l'uomo a livello interiore per affrontare un trauma trasformativo. Non lo fa la scuola, che si è ridotta a fabbrica di nozioni. Non lo fa la religione, annacquata nella burocrazia. Non lo fanno le strutture iniziatiche, spesso compromesse. Non lo fa la famiglia, spesso frammentata.

Il terreno è arido. Quando arriverà la crisi, non ci sarà il "sottosuolo" per far germogliare qualcosa di nuovo. Senza un lavoro individuale profondo, diffuso prima della catastrofe, l'Occidente non rinascerà; cambierà forma, probabilmente in peggio. E per fare questo lavoro oggi servirebbe la volontà di affrontare il dolore della trasformazione, che è esattamente la cosa che l'uomo europeo, in massa, rifiuta.

Ecco perché, temo, alla prossima grande crisi, la maggioranza non tornerà a essere "più umana"... ma solo più nuda.

Enrico Franceschetti
*Questo testo è rilasciato sotto licenza Creative Commons* Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale (CC BY-NC 4.0)

La Saracinesca Chiusa: L'Agorà dell'Assenza

La scena è un quadro di Giorgio de Chirico, dipinto con i colori sbiaditi del solleone cittadino. L'aria è ferma, densa di un calore che opprime i pensieri e rallenta i passi. Il rumore si è ritirato, lasciando il posto a un ronzio indistinto che è l'unico accompagnamento di questo purgatorio d'asfalto. E in questo vuoto sonoro, la saracinesca chiusa di un negozio non è solo un oggetto di metallo: è il centro nevralgico di una dimensione innaturale.
È lì che si raduna l'umanità dispersa, quella che la corrente delle vacanze non ha trascinato via. I pochi, i rimasugli, gli "esemplari" che, privati dei loro punti di riferimento consueti, sono costretti a confrontarsi con una realtà scomoda e rarefatta. Non più la folla anonima dei pendolari o la calca dei consumatori, ma una galleria di figure a sé stanti: la signora che chiede per l'ottava volta "Ma è chiuso anche oggi?", il ragazzo che gira a vuoto sul monopattino, io, e un altro, un uomo in cerca di un'ombra.
Quella saracinesca diventa un'agorà inconsapevole, un palcoscenico su cui si proietta il dramma silenzioso della solitudine. La frustrazione iniziale di trovare il negozio chiuso si scioglie in un pretesto per fermarsi, per incontrare uno sguardo, per scambiare due parole. È qui che avviene la vera compravendita: non di merci, ma di storie e di riconoscimenti.
Il Cane, il Figlio e la Verità Sotto il Sole
È in questo spazio surreale, a un metro dal metallo zigrinato, che ho incontrato uno di quegli esemplari umano-canini. Il suo cane, scodinzolante e sornione, era la sua ombra, la sua ancora, la sua verità. E lui, guardandomi con una stanchezza che non era solo fisica, ha aperto la porta di una confessione amara e disarmante.
Mi ha detto che si sentiva più amato dal suo cane che dal figlio. Ha usato parole taglienti come schegge: il cane, mi ha detto, è un testimone vivo, concreto, quotidiano dell'amore che gli è rimasto. Il figlio, invece, è un'idea, una voce lontana in una telefonata, un volto su un profilo social. La sua presenza è un'astrazione, un atto di fede. L'amore del cane è reale: un respiro, un tocco, una fedeltà che non conosce vacanze o distanze. Non un amore migliore, ma un amore più presente.
In quel momento ho capito. Quella saracinesca non era solo la soglia di un negozio, ma la soglia di una rivelazione. La solitudine estiva, che spoglia la città dei suoi rumori e dei suoi riti, spoglia anche l'animo delle sue maschere. Costringe a ridefinire il significato di presenza, di affetto, di verità. E in questo silenzio assordante, un cane che ti guarda negli occhi è un tesoro che non si compra né si vende.
La nostra elegia non è un lamento per ciò che è chiuso, ma una celebrazione agrodolce di ciò che si apre inaspettatamente: la possibilità, in mezzo al caldo e alla noia, di ritrovare una dignità umana e animale che il rumore del quotidiano ci fa dimenticare.
Enrico Franceschetti
*Questo testo è rilasciato sotto licenza Creative Commons* Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale (CC BY-NC 4.0)

domenica 22 dicembre 2024

DEDICO QUESTO SEMPLICE POST A TUTTE LE MIE DOLCISSIME AMICHE E SORELLE SENZA LE QUALI NULLA SAREBBE COLORATO E MUSICALE COM'È
Le donne che abbracciano
Siete mai stati abbracciati da una donna?
Non intendo quegli abbracci fugaci, appena un contatto di guancia, un tocco distratto. E nemmeno mi riferisco agli abbracci misurati, quasi coreografie di circostanza, dove il timore di sgualcire un abito prevale sul calore umano.
E nemmeno mi riferisco a quelli infuocati, che cercano la fusione dei corpi, ma che spesso si concentrano più sul desiderio che sulla vera connessione emotiva, sono i migliori...
No. Io penso a quelli dati di slancio, che ti travolgono e ti fanno traballare. Quelli che ti stringono l'anima, che ti proteggono, ti contengono in un vortice di emozioni, dove il sorriso o le lacrime sono un'unica, immensa, espressione.
Senti il battito del loro cuore contro il tuo, una coperta calda e morbida, senza riserve, senza remore, un calore che si propaga ovunque.
In quell'abbraccio, apparentemente fragile, c'è un'accoglienza totale, un avvolgerti oltre ogni tenerezza.
Quegli abbracci lì, solo le donne li sanno dare. Perché in quegli abbracci c'è tutto l'abbandono, tutta la forza, tutta la dolcezza e tutta quella meravigliosa magia nel portare il corpo come fosse un mantello di seta di stelle intessuto di calore, di protezione, di amore incondizionato, che solo una donna conosce.
Non è solo un contatto, ma un avvolgimento totale, come un grembo, un rifugio sicuro, un "ci sono io" silenzioso che nutre l'anima e conforta il cuore. Un'accoglienza incondizionata, dove fragilità e forza si fondono in una magia inesplicabile. Una testimonianza di amore e protezione che... non si dimentica più.
Non ci sono poesie o musiche o dipinti che possano descrivere l'impeto travolgente e tenero di quell'abbraccio. Bisogna solo riceverne uno in dono...
Auguro a tutti, per questo Natale, un abbraccio così. Un abbraccio, per sempre.




martedì 17 dicembre 2024

"Campione di Sconfitte: Il Manuale (Non Richiesto) per Trasformare Ogni Minima Azione in un Disastro Colossale"

"In una società dove tutti si allenano per l'oro olimpico della perfezione, io mi sono specializzato nel lancio del giavellotto... contro il muro. Con ottimi risultati, devo dire. Il muro, ovviamente, è ancora lì. Io un po' meno. Sembra che la parola d'ordine sia 'successo', declinata in ogni sua forma: successo professionale, successo social, successo persino nel fare la spesa al supermercato senza dimenticare il sacchetto riutilizzabile. Nei telefilm (di solito americani, ma la tendenza si sta espandendo a macchia d'olio) ogni padre chiama il proprio figlio 'campione' e la propria figlia 'principessa'. Nessuno che usi termini tipo 'tesoro', 'amore mio'... naaa!!! Troppo melenso. I sentimenti valgono poco nel mondo delle competizioni, dove l'unica cosa che conta è arrivare primi. E così, anch'io sono diventato un campione. Un campione di sconfitte, di gaffe, di figuracce, di 'epic fail'. Potrei scrivere un manuale su 'Come trasformare ogni minima azione in un disastro colossale'. Anzi, forse lo farò.
Ho iniziato presto, da piccolo, ad affinare le mie doti di 'problem maker'. Ricordo una volta, a tavola, avevo osato esprimere un'opinione sulla bontà di un piatto e del suo condimento. Mio padre mi guardò con lo stesso sguardo che useresti per un alieno appena atterrato nel tuo giardino e tuonò: 'Non siamo in parlamento! Qui decido io!!'. Da quel giorno, mangio solo con olio e rassegnazione. E ho anche imparato una lezione fondamentale: 'Quando sei martello batti, se sei incudine statti!!!'. Io, ovviamente, ero l'incudine. E lo sono rimasto.
Perché, vedete, pensavo che una volta cresciuto sarei diventato io il 'martello'. Magari non un martello pneumatico, ma almeno un martelletto da carpentiere. Invece, mi ritrovo a essere un'incudine di ultima generazione, schiacciata non più da mio padre, ma da un'alleanza apparentemente invincibile formata da mia figlia e mia moglie. Se prima subivo in silenzio, ora vengo amorevolmente 'consigliato' su come dovrei comportarmi. E i 'consigli', ovviamente, si trasformano in ordini. In casa ormai mi chiamano 'il comodino parlante'. Mi interpellano solo per recuperare il telecomando sotto al divano o per fare rifornimento di snack. Per il resto, resto lì, immobile, ad accumulare polvere (e chili). Il mio potere decisionale si limita alla scelta del gusto del gelato al supermercato… e anche lì devo stare attento a non contrariare i gusti della 'coppia regnante'.
E vogliamo parlare del lavoro? Tempo fa gli avvocati erano temuti e rispettati. Nella Napoli di una volta venivano interpellati per risolvere beghe e piccoli conflitti 'a norma di legge', tanto li si riteneva saggi ed imparziali. Io che ho fatto? Ho studiato, ho faticato da praticante per più di dodici ore al giorno ed ora… ora mi trovo clienti che mi chiedono di ratificare quello che hanno trovato su qualche penoso sito pseudolegale, scritto in un italiano improbabile e pieno di errori grammaticali, e mi chiedono di 'darci una controllatina'. Come se io fossi un correttore di bozze gratuito. Altro che 'nobile arte forense'! Ormai mi sento più vicino al mondo del 'copia e incolla' che a quello dei codici.
Potrei continuare a lungo, ma temo che a questo punto abbiate già sviluppato una certa empatia per la mia condizione. O forse una forte compassione. O, peggio ancora, un irrefrenabile desiderio di cambiare pagina. L'ultima scoperta che ho fatto è che anche Facebook, con i suoi algoritmi infallibili, mi ignora. Preferisce le foto di torte a forma di unicorno e i balletti improbabili delle influencer. Evidentemente, le mie riflessioni sulla crisi della società del pensiero o sulle avventure di Babbo Natale non sono abbastanza 'likeable'. Mi tratta come un parente scomodo alle feste di famiglia. Mi mette in un angolo e mi ignora.
Quindi, ditemi, amici, colleghi, sconosciuti di internet: sono il Forrest Gump delle catastrofi? Il Don Chisciotte delle cause perse? O semplicemente un uomo che ha capito che, in fondo, la vita è una gigantesca candid camera e io sono il protagonista inconsapevole? Datemi una risposta. O, meglio ancora, un like. Almeno quello.
P.S. Per la cronaca, questo post l'ha scritto una AI. Non sia mai che mi prenda il merito di di un qualche preziosissimo "like", donatomi più per compassione che per convinzione...!

domenica 6 ottobre 2024

Dio e la creatura: una relazione intricata, faticosa, forse impossibile... ma al contempo un profondo bisogno inesaudito dalla creazione in poi


La consapevolezza di sé e dell'ambiente in cui vive, induce la Creatura a interrogarsi sulla propria esistenza, dunque sulla sua origine, dunque su un possibile Creatore. Per l'Uomo, la risposta a queste domande ha impegnato pensatori di ogni epoca e civiltà, dalle riflessioni di Platone e Aristotele nella Grecia classica, alle indagini di Confucio e Lao Tzu nell'antica Cina, dalle illuminazioni di Buddha e dei saggi Upanishad in India, alle elaborazioni teologiche di Sant'Agostino e Tommaso d'Aquino nel Cristianesimo medievale, fino alle critiche nella filosofia moderna. Spesso tutto ciò comportando conflitti aspri e violenti, ma senza una soluzione definitiva.


In questa riflessione, si propone una nuova ipotesi per rispondere al quesito sull'esistenza di un Creatore: definire Dio come "tendenza". Tale idea apre a nuove interpretazioni del divino. Cosa significa esattamente "Dio come tendenza"? È utile considerare come questo concetto si inserisca nel panorama del pensiero filosofico e religioso. Già alcuni pensatori, pur con differenze significative, hanno toccato temi affini alla "tendenza" verso Dio: Aristotele con il suo concetto di "telos", ovvero la tendenza di ogni essere verso la realizzazione della propria natura, Plotino e i neoplatonici con la loro visione di un universo emanato dall'Uno, da cui ogni creatura proviene e a cui aspira a tornare, i mistici cristiani e orientali con la loro ricerca di unione con il divino, attraverso l'esperienza estatica e la contemplazione, e persino Kierkegaard con la sua enfasi sul "salto di fede", inteso come atto libero e personale di affidamento a Dio.


Approfondendo ulteriormente questa ipotesi, emerge il ruolo cruciale della consapevolezza della Creatura nel definire la propria "tendenza" verso Dio.  L'ipotesi qui avanzata si distingue per alcuni aspetti fondamentali, come l'impossibilità di raggiungere una completa fusione con il Creatore e il ruolo centrale della consapevolezza della Creatura nel definire la "tendenza". Non si tratta semplicemente di seguire un istinto o una predisposizione innata, ma di un processo che si attiva quando la Creatura comprende di essere parte di un sistema complesso e chiuso, preordinato da un'entità che la trascende. Tale consapevolezza genera una serie di interrogativi sulla propria esistenza, sulla propria origine, sul proprio ruolo nel cosmo. La "tendenza" verso Dio si manifesta quindi come una ricerca di senso, un desiderio di comprendere il fine ultimo della propria esistenza e di connettersi con qualcosa che vada oltre i limiti del proprio mondo.


Tra i filosofi che si sono avvicinati alla concezione di "Dio come tendenza", Hegel merita una particolare attenzione. Nella sua filosofia, Dio è concepito come Spirito Assoluto, un'entità dinamica e in continua evoluzione che si manifesta nella storia attraverso la coscienza umana. L'uomo, nel suo percorso di conoscenza, "crea" Dio come culmine del processo di autocoscienza. Questa visione presenta delle affinità con la nostra ipotesi, in particolare per l'idea di un Dio "in divenire" che si realizza attraverso la creatura. Tuttavia, Hegel ritiene che l'uomo possa raggiungere l'unione con lo Spirito Assoluto, mentre nella nostra concezione la Creatura non può mai identificarsi completamente con il Creatore, a causa della sua natura finita e limitata. Inoltre, Hegel non parla esplicitamente di una "creazione" di Dio da parte della creatura, mentre noi sottolineiamo il ruolo attivo della Creatura nel "plasmare" la propria immagine di Dio.


Tuttavia, questa consapevolezza si scontra con un paradosso fondamentale: la Creatura può concepire l'idea di Dio, formularla nel proprio pensiero, ma non potrà mai conoscerlo completamente né eguagliarlo. Infatti, la Creatura, pur nella sua consapevolezza, rimane intrinsecamente limitata dalla sua natura finita e dipendente. Il Creatore, al contrario, è la fonte stessa dell'esistenza, l'origine di ogni cosa, e come tale rimane per la Creatura un mistero insondabile. L'asimmetria, l'inconoscibilità e la libertà che caratterizzano il rapporto tra Creatore e creatura impediscono una completa fusione. La Creatura può solo tendere verso Dio, cercarlo, avvicinarsi a lui, ma non potrà mai identificarsi completamente con lui, né comprenderne appieno l'essenza. In questo senso, è la Creatura stessa che, nel suo sforzo di comprensione, "crea" Dio, plasmandolo a sua immagine e somiglianza, proiettando su di lui i propri desideri, le proprie paure, le proprie aspirazioni. Come affermava Feuerbach, "Non è Dio che ha creato l'uomo, ma l'uomo che ha creato Dio". Questo paradosso è un elemento fondamentale nella ricerca di Dio, un limite che la Creatura deve accettare e che la spinge a una continua riflessione sul mistero dell'esistenza.


In questo processo di "creazione" di Dio, la Creatura plasma un'immagine divina a propria misura, un Dio che risponde alle sue esigenze, ai suoi desideri, alle sue paure. Questo "Dio immaginato" diventa un punto di riferimento, una fonte di senso, una guida nel cammino di vita. Come afferma Nietzsche, la "morte di Dio" apre la possibilità per l'uomo di diventare "Oltreuomo", creando i propri valori e il proprio senso della vita. Tuttavia, a differenza dell'Oltreuomo che si fa Dio di se stesso, la Creatura che crea Dio non può che immaginarlo come un "sé stesso perfetto", un ideale irraggiungibile, proiettando su di lui le proprie aspirazioni e i propri desideri di pienezza. In modo simile, Jung vede l'archetipo di Dio come una rappresentazione simbolica del Sé, la totalità della personalità, che l'uomo "crea" nella propria mente per dare un senso alla propria esistenza.


La "tendenza" verso Dio è un moto di attrazione verso l'entità causale, un processo di crescita interiore, una ricerca di autenticità e di realizzazione del proprio potenziale.  Immaginando Dio come un "sé stesso perfetto", infinitamente potente,  la Creatura gli attribuisce caratteristiche in qualche modo immaginabili,  pur se amplificate all'infinito.  Si pensi, ad esempio, all'idea  dell'apertura del "terzo occhio", un potenziamento che consente di "vedere" l'invisibile, ma che rimane pur sempre un potenziamento strumentale,  concepibile nella dimensione umana.  Ognuno tenderà dunque a sviluppare ciò che ritiene attribuibile a Dio, e ciò varierà da creatura a creatura, da individuo a individuo.  Questo cammino di crescita è però infinito,  poiché la Creatura,  per definizione priva dei reali attributi di Dio,  non potrà mai  raggiungerli  completamente.  È come  cercare di far incrociare due rette parallele:  la dimensione finita della Creatura e l'infinita  potenza del Creatore  rimarranno  per sempre  separate.  Eppure,  come ci suggerisce il racconto "L'ultima domanda" di Asimov,  Dio,  pur  nella sua inconoscibilità,  è  ciò di cui abbiamo bisogno per giustificare noi stessi e si può trovare in qualunque dimensione, nel suo rapporto fra se stesso e il sistema creato.


In conclusione, la percezione di Dio come tendenza, superando le specificità tradizionali filosofiche e religiose, definisce il bisogno della Creatura di non sentirsi finita, limitata, priva di senso. La focalizza verso l'elevazione, il potenziamento di sé. Offre anche un ulteriore fondamento all'idea della fratellanza fra le creature, poiché ne sottintende la uguale relazione con il Creatore, accomunate dalla medesima "tendenza" verso la trascendenza e la ricerca di senso. La concezione di "Dio come tendenza" non solo illumina il rapporto tra Creatura e Creatore, ma getta anche una nuova luce sulle relazioni tra le creature stesse, invitando a una maggiore comprensione e solidarietà reciproca. Il cammino verso l'infinito è al contempo individuale e collettivo, poiché si sviluppa sì interiormente, ma anche, attraverso l'espressione dell'azione del sé, nella dimensione comunitaria ed universale, sia che si condivida la sete di conoscenza e di elevazione che no.  Questo viaggio è l'unica via attraverso la quale la creatura, in se stessa e come comunità, può cogliere l'opportunità di  crescita, di scoperta e di connessione con il mistero dell'esistenza, un mistero che ci unisce e ci invita a superare i confini della nostra finitezza.

lunedì 23 settembre 2024


E’ autunno.
Ancora una volta torna il tempo che amo, fatto di emozioni più che di sensazioni. Emozioni che si scrivono con i colori, con i profumi, con le luci svanite in ore sempre più piccole, con l’abbraccio dei panni più caldi frettolosamente ripresi dagli armadi nei quali s’erano rifugiati dal soffocante ruggito estivo.
E’ il tempo della memoria, rievocazione di eccessi ed avventure d’estate, di vibranti occasionali amori e dei tuffi in sentimenti audaci e spericolati, obbligatoriamente vincolati ad un tempo specifico oltre il quale porterebbero solo scompiglio e disordine.
E’ il tempo del tramonto, che mai come ora si tinge di echi lontani. Di epoche selvagge ed innocenti, quando l’amore materno cullava e nutriva, garantendo un nido accogliente ma lasciando spazio ai primi ruzzolanti voli. Ci si sentiva liberi, aquile sprezzanti ed orgogliose… quando si era soltanto pulcini mai lontani dallo sguardo che custodisce con amore infinito.
Lo ricordo bene, quel tempo. A Sorrento l’aria si tingeva di profumi squillanti. Mentre il mare, con i suoi primi sussulti, si scagliava su spiagge e scogliere lasciando ovunque pulviscoli di spuma salmastra, ben percepiti dalle narici dei pescatori. Nell’entroterra, l’odore aspro di vinaccia raccontava invece la storia millenaria del succo dei filari scoscesi, di un novello presto in arrivo, festeggiato con brindisi ed amori ridenti.
Le terre scoscese sul mare, poi, si coloravano dei teli distesi sotto agli ulivi affinchè nessun frutto prezioso, in terra abbandonato, potesse rovinarsi. Tutto sembrava dipinto con colori orchestrati per donare stupore, catturare lo sguardo per trattenerlo sull’armonico danzare dei verdi argentei del denso fogliame, dei rossi e dei neri degli umani tendaggi, e dell’azzurro squillante del cielo e del mare, biancheggiati entrambi da nuvole e spume!
Ricordo… ricordo lo strapiombo della Torre di Minerva, talmente proteso sul mare che il suo silenzio poteva essere rotto solo dalle morbide eco di vite lontane. Un grido d’uccello, la voce d’un navigante, si percepiva a chilometri come fossero giusto dietro di te. Era un incanto, una magia che ti avvolgeva annodandoti i sensi, mentre il suono diventava colore, il profumo canzone, il leggero sfiorare del vento, sapore… Eri solo… ma sentivi tutti i pensieri del mondo, tutte le anime dell’universo e affogavi nel turbine della meraviglia incantandoti man mano di più.
La sera, poi, quando la luce scendeva più in fretta, le luci inondavano il borgo dei pescatori, tessendo un reticolo fitto di quello che sarebbe diventato a breve Presepe, nascita di un Dio d’amore che sa solo donare bellezza.
In quelle stradine, ricordo il brusio dei passanti, ancora tantissimi e ben decisi a godersi ogni piacere possibile, e i millecolori delle merci degli artigiani, ben esposte al di fuori delle rispettive botteghe. Rispetto all’estate, si percepiva una nuova e sopravveniente lentezza, un desiderio di assaporare, e non divorare. Anche i passi si facevano più lunghi, come più meditati, e si contavano i selci sporgenti e gli inciampi quasi fossero analoghi a quelli di ogni nostra vita.
Si, quell’autunno era la vita, ora che sono io stesso diventato autunno. Era tutto ciò che durante l’estate esonda e si perde, tutto quello che l’ansia del divorare non consente di assaporare. Era la gioia di tornare, dopo essere andati, sapendo di ritrovare. Che fortuna che era!!!
Ho sempre amato, l’autunno.


martedì 17 novembre 2015

Io c'ero...

... Quel giorno lì, quello in cui il buio è diventato notte invincibile nonostante le sfolgoranti luci di una Ville Lumière bellissima e smarrita.

Ero lì, fra quelle strade, insinuate da un freddo vento novembrino, con le prime foglie dorate a pavimentare i marciapiedi, ed i passanti a stringersi nelle giacche ancora troppo leggere o a ristorarsi nei bistrò, per non sentire l’inverno alle porte, per non sentire la paura alle porte.

Ero lì, quando ho visto sfrecciare a pochi passi da me un’auto nera, a fari spenti, con le ruote urlanti. Magari erano loro, magari no, non lo saprò mai. Ma a poca distanza, uomini e donne già erano bambole di pezza in un tiro al piattello allucinato ed imbecille, erano visi da esplodere a bruciapelo, erano quarti di bestie da offrire in gloria ad un Dio inorridito, mille volte ucciso dall’incredibile, infinita, inspiegabile stupidità dei suoi figli.

Ero lì, cercando rifugio nel Metrò, assordato da sirene, urla e messaggi recitati da altoparlanti gentili ma incomprensibili, di un idioma dolce e musicale ma per me sconosciuto, tenendo per mano mia moglie, guardandola negli occhi per sussurrarci senza parole che avremmo potuto non tornare, che la nostra cucciola avrebbe potuto restare da sola, lontana, senza nemmeno sapere il perchè... così come senza perchè altri cuccioli in quel momento restavano straziati, su un pavimento freddo, distante, troppo distante maledizione!, dal calore delle loro famiglie.

Sono stato lì, siamo stati lì, nelle ore seguenti, in cui una città si è chiusa, spegnendo le luci, chiudendo i portoni, lasciando per strada solo soldati in assetto di guerra e formazione tattica a camminare nel vento, mentre i pochi passanti, addossati a muri incrostati da scritte e graffiti metropolitani, tentavano di essere loro stessi pietre, strada, catrame.
Siamo stati lì, cercando del cibo che ci scaldasse in quelle ore d’angoscia, a litigarci l’ingresso. Entro io, tu sei più importante... se succede qualcosa nostra figlia ha bisogno di te; no, lo sei tu, vado io. Non eroismo ma rassegnata accettazione di un rischio incombente, grave, impossibile da determinare.

Ed ancora siamo stati lì quando, il giorno del giorno dopo, la rabbia per una violenza inumana ha spalancato i portoni, sfondato transenne, riversato uomini e donne in strada, col desiderio di non essere vivi già morti, ma di testimoniare col sangue e la carne che la vita dev’essere libera, che la gioia, la tenerezza, l’amore, devono vincere sul sangue e sulle membra squartate. Terrorizzati ma coraggiosi, tutti per strada, al sole, perchè è meglio piangere pallidi, camminando tremanti ma a testa alta che rintanati al sicuro, sconfitti dalla paura e dalla vergogna.

Ora... ora sono qui, fra le mura protette di casa.

Ma il mio cuore è ancora in quella città, fra quelle strade, con quelle persone, fratelli e sorelle di sangue e dolore e terrore. 

Da oggi io sono parigino, je suis parisienne, io sono chiunque sia offeso, usato, minacciato, ucciso, e voglio urlarlo nonostante la mia umanissima paura, perchè nessuno mai potrà riuscire a farmi essere come non voglio, a farmi odiare, a farmi rinunciare, a farmi nascondere. Mai.