venerdì 14 novembre 2025

I Magistri Comacini

Sezione I: Il Contesto Storico e il Fondamento Documentale (Piano Storico)

I.1. Definizione e Origini Cronologiche
I Magistri Comacini si configurano come una delle più antiche e influenti corporazioni di costruttori e architetti operative in Europa. Il loro periodo di attività si estende convenzionalmente dall'Alto Medioevo, coprendo un arco temporale di oltre dodici secoli (dal 600 al 1800 d.C.), secondo la ricostruzione classica di Giuseppe Merzario.
La loro identità è legata indissolubilmente alla Lombardia, in particolare alla regione del Lario (Lago di Como), da cui deriva l'etimologia più solida del termine "Comacino" (relativo a Como o Comum). Il dibattito che ha proposto l'alternativa di cum machinis (con macchine) è considerato dalla filologia storica come infondato, poiché i documenti altomedievali, cruciali per la loro identificazione, attestano uniformemente la dicitura com(m)acinus (spesso con doppia 'm'), che rafforza l'origine toponomastica.
Le radici professionali dei Comacini sono state rintracciate nelle strutture precorritrici dell'antichità, ipotizzando una derivazione diretta dai Collegia romani. Tali Collegia erano vere e proprie corporazioni, in cui l'arte e la tecnica venivano trasmesse in modo riservato all'interno della schola (scuola) e del laborerium (cantiere), garantendo una continuità della tradizione edilizia fino al periodo longobardo.

I.2. Il Riconoscimento Legale Longobardo: La Fondazione Giuridica
La fondazione documentale e la legittimazione giuridica dei Magistri Comacini avvengono saldamente nell'Alto Medioevo longobardo.
Il documento più significativo, che conferisce alla corporazione uno status di eccezionale importanza, è l'Editto di Rotaridel 22 novembre 643 d.C. L'articolo 144 cita esplicitamente il Magister commacinus cum co[l]ligantes suos (Maestro Comacino con i suoi associati). Questo riferimento è fondamentale perché non solo attesta l'esistenza della corporazione, ma ne conferma la struttura organizzativa collettiva e il riconoscimento giuridico formale all'interno del regno.
Successivamente, il Memoratorium di Liutprando (713 d.C.) convalida questa evidenza, documentando che la Corona longobarda disponeva specificamente dei carpentieri della Valle Intelvi (cuore dell'attività comacina) già a Pavia.
Questo riconoscimento formale stabilito dalla legge longobarda è la ragione determinante della loro sopravvivenza e diffusione. A differenza di altre maestranze, spesso vincolate da servitù feudali, lo status garantito dal re conferì ai Comacini una mobilità e autonomia contrattuale uniche. La loro abilità tecnica fu elevata a risorsa strategica del regno, ponendo le basi per il loro monopolio della conoscenza costruttiva nell'Europa occidentale.

I.3. L'Espansione Continentale e il Romanico Lombardo
Tra l'XI e il XIII secolo, i Comacini raggiunsero l'apice della loro influenza, divenendo gli artefici principali dello stile noto come Romanico Lombardo. Essi operavano come maestranze itineranti, capaci di esportare tecniche e linguaggi architettonici ben oltre i confini regionali.
La loro fama di "costruttori particolarmente eccellenti" è attestata dalla vasta diffusione delle loro opere. In Italia, i capolavori includono la Basilica di Sant'Abbondio e San Fedele a Como, la Rotonda di San Lorenzo a Mantova, e la Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. L'influenza è evidente anche in opere fondamentali come l'Abbazia di Nonantola e il Duomo di Fidenza. Artisti legati alla loro tradizione, come Benedetto da Antelami (esponente di punta della scuola lombardo-emiliana), lavorarono al Duomo e al Battistero di Parma, portando l'eredità tecnica comacina alla fusione con gli influssi gotici.
In Europa, la loro presenza è documentata in Catalogna, dove svolsero un ruolo cruciale nello sviluppo del Romanico, e in Germania (Cattedrale di Königslutter, Ratisbona), Ungheria e Inghilterra. L'espansione riflette la loro supremazia tecnica continentale.
Il percorso cronologico si snoda dunque dai Collegia Romani (I Secolo d.C.) al fondamentale Riconoscimento giuridico Longobardo (Editto di Rotari, 643 d.C.), passando per la convalida del Memoratorium di Liutprando (713 d.C.), fino al periodo di massima influenza del Romanico Lombardo (XI - XIII Secolo) e, infine, all'analisi storiografica di Merzario (XIX Secolo).
Sezione II: Organizzazione e Trasmissione del Sapere (Piano Dottrinario)

II.1. La Struttura Organizzativa Interna e la Dottrina Segreta
I Magistri Comacini operavano in un sistema corporativo riservato, presumibilmente modellato sui Collegia romani. La Dottrina, che comprendeva la conoscenza tecnica, la geometria e l'ingegneria, era il loro bene più gelosamente custodito e il fondamento del loro prestigio.
La struttura operativa si articolava in tre centri vitali: i Laborerium (i luoghi di lavoro), le Schole (i centri di insegnamento) e le Loggie (i luoghi di associazione e mutuo soccorso). Questo sistema garantiva che l'arte antica fosse trasmessa "a porte chiuse" e in modo rigorosamente controllato.
Merzario sostenne che i Comacini conservarono e tramandarono i precetti fondamentali del trattato De Architectura di Vitruvio. La trasmissione avveniva necessariamente in forma orale, dato che i testi originali di Vitruvio erano noti per via indiretta o andati perduti in Occidente fino al loro recupero più tardivo.
L'obbligo di trasmettere oralmente una conoscenza tecnica così avanzata stabilisce il fondamento della loro interpretazione iniziatica. Ricevere tale conoscenza, in assenza di testi scritti diffusi, si configurava come un rito di passaggio professionale rigorosamente controllato. Il segreto, in questo contesto, era essenzialmente uno strumento per mantenere il monopolio tecnologico e la superiorità economica. Il Magister era, per definizione, superiore in quanto custode e depositario della geometria e della tecnica costruttiva.

II.2. La Crisi del Modello e la Transizione all'Età Moderna
L'autonomia e l'organizzazione corporativa dei Comacini subirono un progressivo declino con il Rinascimento e l'avvento dell'Età Moderna. Sebbene la loro storia sia tracciata da Merzario fino al 1800, egli stesso riconosce una "decadenza dell'arte nel barocco".
La professionalizzazione crescente e la formalizzazione dell'arte e dell'architettura condussero all'istituzione delle Accademie (come l'Accademia di Brera a Milano e l'Accademia di San Luca a Roma). Queste nuove istituzioni definirono classi rigide e imposero la pedagogia classica e l'autorità istituzionale, segnando il progressivo abbandono del modello esclusivo e itinerante della gilda medievale. Le maestranze comacine si integrarono in un sistema basato sul merito accademico e non più sull'esclusività corporativa.

Sezione III: Il Catalogo delle Opere e l'Arte Lapidaria (Piano Simbolico)

III.1. Il Romanico Distintivo e i Segni d'Identità
Il Romanico Lombardo, che i Comacini diffusero capillarmente, si riconosce per elementi architettonici distintivi che conferiscono un'unità formale alle loro opere.
L'identità professionale era marcata dai segni lapidari incisi sulle pietre. Questi marchi di fabbrica svolgevano una duplice funzione: avevano una Funzione Operativa/Contabile, essenziale per identificare la porzione di lavoro eseguita dal singolo tagliatore e calcolarne la retribuzione; ma anche una Funzione Simbolica Ibrida, poiché accanto ai marchi pratici si ritrovano incisioni con un "forte carattere simbolico" (come la croce). Ciò suggerisce una commistione tra la necessità amministrativa e l'espressione identitaria o devozionale dei costruttori.

III.2. Il Simbolo Cardine: La Colonna Annodata (Ofitica)
L'elemento simbolico più potente ed enigmatico associato ai Magistri Comacini è la Colonna Annodata, o Colonna Ofitica. Questo elemento, ricorrente negli scultori di origine lombarda tra il XII e il XIII secolo, può presentare un fusto unico attraversato da un nodo o colonne multiple intrecciate. Esempi notevoli si trovano nella Pieve di San Pietro a Gropina, ricca di iconografie comacine.
Il significato della Colonna Annodata è oggetto di discussione:
• Interpretazione Classica/Apotropaica: L'intreccio è spesso identificato con il nodo di Ercole (nodo erculeo), che aveva una chiara funzione apotropaica, volta ad allontanare le forze del male.
• Interpretazione Esoterica e Geometria Segreta: La rotazione "innaturale" del nodo in alcune occorrenze, ad esempio di 45∘, suggerisce una possibile intenzione geometrica o dottrinale nascosta, non spiegabile dalla sola estetica.
La Colonna Annodata non è un mero ornamento, ma l'emblema di un linguaggio simbolico unificato. La sua ampiezza di diffusione paneuropea e la sua complessità concettuale indicano che i Magistri utilizzavano l'architettura come un "libro di pietra", un testo criptico destinato a comunicare concetti dottrinari, forse legati all'unione della materia con la forma geometrica ideale, noti esclusivamente agli iniziati della corporazione.
Il contrasto tra le diverse letture del simbolismo comacino è chiaro: la Colonna Annodata (Ofitica) è interpretata tradizionalmente come il Nodo Eraculeo (apotropaico) o un simbolo esoterico, ma rappresenta anche una firma architettonica comacina che veicola dottrina nel XII-XIII secolo. I Segni Lapidari, sebbene talvolta visti come marchi di riconoscimento iniziatico, sono primariamente uno strumento di contabilità per identificare il lavoro. Il Simbolismo Faunistico (Leoni stilofori, Sirene bicaudate) è un'iconografia tipica longobarda e comacina, con funzione spesso apotropaica.
Sezione IV: L'Iniziazione Operativa Medievale (Piano Iniziatico)

IV.1. Il Concetto di Iniziazione Operativa
Nel contesto medievale dei Comacini, l'iniziazione non era di natura filosofica, ma essenzialmente operativa: risiedeva nella trasmissione controllata dei "segreti del mestiere".
L'apprendimento avveniva nelle Schole e nei Laborerium, dove il sapere tecnico—dall'applicazione orale di Vitruvio alla stereotomia—era custodito e tramandato. Questo sistema garantiva l'eccellenza costruttiva e fungeva da meccanismo di controllo professionale. L'ammissione implicava l'obbligo di aderire a regole e giuramenti di dovere verso il corpo corporativo (Corpo Accademico).
La vera essenza proto-massonica dell'iniziazione medievale consisteva in questa pura arte operativa: la consegna di un set di conoscenze professionali avanzate, finalizzate a costruire edifici concreti secondo canoni geometrici e tecnici superiori, elemento fondante che sarà poi ripreso e trasformato.
Sezione V: Il Nexus Critico: I Comacini e l'Eredità Proto-Massonica

V.1. La Tesi di Giuseppe Merzario: Una Genealogia Italiana
Giuseppe Merzario (1893) è la figura centrale che ha creato il nesso tra i Magistri Comacini e la Massoneria, inserendo i Comacini come partecipanti a gruppi proto-massonici precedenti il 1400.
Il merito di Merzario risiede nel suo rigore metodologico per l'epoca: egli rifiutò esplicitamente le "leggende" che facevano risalire la Massoneria speculativa al Tempio di Salomone o a Hiram. Merzario cercò, invece, di stabilire una genealogia storicamente più plausibile, ancorata ai Collegia romani e ai documenti longobardi. Egli fornì una base storiografica a supporto dell'idea di una continuità associativa in Italia.
Il contributo di Merzario fu quello di proporre una genealogia storicamente più plausibile e autoctona (italiana) al mito fondativo massonico, sebbene limitasse il ruolo dei Comacini alla sfera operativa e mutualistica.

V.2. Il Divario Dottrinario e la Funzione Proto-Massonica
La storiografia accademica moderna opera una distinzione netta tra le corporazioni operative medievali (i Comacini) e le Logge speculative moderne (emerse nel XVII-XVIII secolo). I Magistri Comacini non furono Massoni nel senso speculativo, ma sono un esempio eccellente di precursori operativi.
L'eredità dei Comacini non è di continuità dottrinaria, ma simbolica, strutturale e lessicale. La Massoneria moderna, infatti, adottò e reinterpretò termini come Loggia e Magister per conferire un'aura di antichità. Il vero divario risiede nello scopo: l'iniziazione Comacina era finalizzata a costruire edifici (geometria e tecnica), mentre l'iniziazione massonica speculativa impone lo studio della Libera Muratoria nei suoi simboli, morale e storia (fini filosofici e morali).
La genesi e i miti massonici sono stati storicamente confusi: Merzario rifiutò le leggende di Noè e Salomone, suggerendo un'origine più vicina a Vitruvio, e fornendo involontariamente una base per un mito fondativo specificamente italiano.

V.3. L'Eredità Politica e la Strumentalizzazione del Mito
L'opera di Merzario, pur equilibrata per i suoi tempi, divenne la fonte principale per la successiva mitologizzazione. Il nome "Maestri Comacini" fu adottato da Logge e gruppi politici (come nel contesto del Risorgimento e del Mazzinianesimo) per legittimare una genealogia iniziatica specificamente italiana e patriottica. Ad esempio, la fondazione di una loggia "Maestri Comacini" a Como nel 1905 dimostra l'uso del mito per ragioni identitarie e politiche.

La ripresa del nome, che non fu affrontata da Merzario (la cui opera è pre-XX secolo), evidenzia come il mito Comacino sia stato la base per una linea di discendenza massonica italiana, reinterpretando la struttura operativa delle antiche Loggieper fini speculativi, morali e politici.
I Magistri Comacini sono in conclusione i precursori operativi, i depositari dei simboli e della struttura che hanno ispirato la Massoneria, piuttosto che i suoi diretti antenati filosofici. La loro evoluzione è la funzione proto-massonica per eccellenza: la transizione dall'arte di costruire edifici all'arte di costruire l'uomo.
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mercoledì 15 ottobre 2025

Il mio Francesco

Sai, c’è un Francesco che ho imparato a conoscere nel mio cuore, un Francesco che è diverso da quello che ci hanno raccontato. Non è solo un santo, ma un uomo, un fratello, un amico che ha saputo vivere con una profondità e una passione che mi parlano ancora oggi. È il Francesco che non aveva paura di essere se stesso, di essere amato e di amare, in un modo che supera ogni definizione. Questo è il mio Francesco.
La sua storia non inizia con il distacco, ma con un profondo radicamento nel mondo. La sua vita non fu un lampo improvviso, ma un lento fiorire, un cammino che mi ha insegnato che ogni passo, anche quello che sembra sbagliato, ci porta più vicini a noi stessi. La sua giovinezza non fu quella di un poverello, ma di un giovane ricco e vivace, che amava la poesia dei trovatori e sognava la gloria della cavalleria. Fu sua madre, Madonna Pica, a parlargli con il cuore, a trasmettergli il francese melodico e la sensibilità che lo avrebbe reso un "re" tra i suoi coetanei, un animatore di feste e un innamorato della vita.
E poi ci fu l'aspirazione cavalleresca, un sogno che lo condusse a cercare un onore più alto. Le sue avventure non lo resero un guerriero, ma il suo spirito combattivo non morì. Anzi, si trasformò in una battaglia spirituale. Le leggende, che lo collegano a una possibile formazione templare, mi sussurrano che i suoi ideali di obbedienza, povertà e castità non furono un'invenzione, ma la sublimazione del suo desiderio di combattere per un ideale più grande: l'amore e la verità.

Infine, la spoliazione. Quell'atto così potente, così assoluto, non fu un gesto di sconfitta o di umiltà passiva, ma un atto di potenza e di coraggio. Francesco non si stava spogliando solo dei suoi vestiti e dei beni paterni; si stava spogliando dell'identità che il mondo gli aveva imposto. In quel momento, nudo di fronte al vescovo e alla folla, non stava semplicemente "uscendo dal mondo", ma stava affermando di appartenere a un'altra dimensione, a un ordine cosmico che supera la materia.

La spoliazione, in questa prospettiva, è l'atto di nascita del "mio" Francesco.
Francesco abbandona il "tutto" materiale del padre (il denaro, le stoffe, il prestigio) per abbracciare l'Uno spirituale. È un atto alchemico: la materia viene trasmutata in spirito. Non è un rifiuto del mondo, ma una sua riaffermazione in una dimensione più alta e più vera.
Con l'atto di spoliazione, Francesco dichiara che la sua vera famiglia non è più quella terrena, ma quella spirituale. Si libera del nome e dell'eredità del padre per abbracciare un'identità universale che lo lega a ogni creatura, a ogni elemento, a ogni albero. È una rottura per unire, una perdita per un guadagno infinitamente più grande.
Questa lettura trova poi la sua massima espressione nel Cantico delle Creature. Il "Fratello Sole", "Sorella Luna", "Frate Vento" non sono solo figure retoriche. Sono la prova che la spoliazione non ha alienato Francesco dal mondo, ma anzi lo ha riconnesso ad esso in un modo più profondo e intimo. L'universo intero diventa la sua famiglia, e ogni creatura la sua compagna di viaggio.

Il Messaggio Nascosto nel Crocifisso
C’è un momento, fra i tanti che hanno contraddistinto l'inizio della sua storia, che mi ha sempre commosso, uno di quelli che hanno cambiato tutto. Non fu un lampo di luce, ma un sussurro, un invito sussurrato al suo cuore. Nel silenzio della chiesetta di San Damiano, un Cristo Vittorioso e sorridente gli parlò. E' molto importante. Quel Cristo non era morto, con il capo reclinato, sfinito dal dolore e dalle sofferenze, Era vivo, trionfante sulla morte. E non era il volto di un severo giudice, ma di un amico, con le braccia aperte in un abbraccio universale. Se lo guardiamo con gli occhi dell'anima, in quelle fattezze possiamo scorgere anche un "terzo occhio", il simbolo di una visione interiore che vede oltre la superficie delle cose.
Il messaggio fu chiaro: "Va' e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina". Francesco, anche se con qualche iniziale fraintendimento, capì che il suo compito non era quello di ricostruire un edificio di pietra, ma la Chiesa spirituale, un'architettura di anime che si era allontanata dal suo fondamento di amore e di povertà. Le sue mani, che un tempo si erano strette intorno ad una spada, si misero a lavorare la pietra, in un atto d'amore che era, in realtà, la sua preghiera più profonda. In quell'umile mestiere di "muratore", egli si univa, in spirito, a tutti gli artigiani che, nei secoli, hanno costruito le cattedrali. Tale dovere incombe ancora oggi, sui "muratori" eredi di quelli.

Mammo Elia, Sorella Chiara e Frate Jacopa
Nel suo cammino Francesco non fu mai solo. Il suo cammino è illuminato da figure che hanno saputo amarlo e comprenderlo in modi unici e profondi. Frate Bernardo di Quintavalle, che fu il primo a seguirlo. Frate Pietro Cattani, giurista e secondo a unirsi a Francesco. Frate Egidio, noto per la sua famosa frase: "L'uomo non ha bisogno di conoscere molto, ma di amare molto." E poi Frate Sisto, Frate Masseo, Frate Rufino e Frate Leone, a cui Francesco si rivolse in punto di morte.

Tre figure però spiccano su tutte le altre. Frate Elia, a lungo condannato dalla Chiesa e dalla storia ufficiale, per lui è stato il "Mammo". Francesco lo ha sempre sentito al pari di una figura materna, un rifugio. Frate Elia era un uomo di grande cultura e, secondo alcune tradizioni, anche un alchimista, alla corte di Federico II, ma al di là di questo, il suo compito più grande fu quello di accudire e proteggere Francesco. Quella che la storia chiama politica, a me sembra un atto di amore e premura, un tentativo di proteggere il suo fratello, fragile e malato, dalle tempeste del mondo. I simboli esoterici che si dice abbia disseminato nella Basilica di Assisi, ed anche nella sepoltura del suo amico, sono per me la sua firma d’amore, un messaggio nascosto che sussurra la verità a chi sa ascoltare.

Poi, non meno fondamentali, due donne, due anime che lo hanno amato in modi diversi ma complementari. Chiara, la sua prima e più fedele compagna di viaggio, il suo amore mistico, il suo specchio femminile, rappresenta la forza e la resistenza spirituale. La sua lotta per mantenere intatta la Regola di povertà mi insegna che l'amore non è solo tenerezza, ma anche coraggio e determinazione.

Ma, ancora più vicina, c’è stata Jacopa dei Settesoli. Una nobildonna che, pur nella sua ricchezza, incarnò l'amore incondizionato che tanto affascinava Francesco. La sua storia mi parla di un amore che va davvero oltre ogni norma. Lui la chiamava "frate" Jacopa, un gesto d'affetto rivoluzionario per i tempi, che riconosceva in lei un'anima pari, una compagna di viaggio. Lei non cercava la povertà materiale, ma l'intimità del suo cuore, offrendogli un conforto che nessun altro poteva dargli, nemmeno con piccoli piaceri come i suoi biscottini. Non era una sorella, ma, appunto, una compagna. A lei, lui si rivolge sul letto di morte, chiedendole per favore "quei biscottini che sai mi piacciono tanto". E lei corre da lui, ed entra nella sua cella appena prima il momento del transito, unica donna mai ammessa a tanto.

Il loro legame raggiunge il culmine proprio nel momento più fragile di Francesco. Tommaso da Celano, in un passo che mi emoziona ogni volta, ci racconta di Jacopa inginocchiata al capezzale del santo, che lo accarezza "come la Maddalena aveva fatto con Gesù". Egli scrive:
Mentre egli giaceva malato, la signora Jacopa dei Settesoli, come gli angeli, si presenta, anche se le donne erano escluse dal luogo dei frati. Ella aveva ricevuto un biglietto da frate Francesco, che le chiedeva di venire, ma era già in cammino per virtù dello spirito. E ella giunse con una tale ansia che, al vedere il suo amato maestro moribondo, non riuscì a trattenere le lacrime. Egli, allora, le disse: «Sorella carissima, non piangere, ché vedrai presto il mio gaudio e il mio riposo». E mentre la donna piangeva, si chinò sul suo volto e lo carezzò con i suoi capelli, come la Maddalena aveva fatto con Gesù.

Questo paragone non è casuale. Evoca una dimensione di femminile sacro e di amore che la Chiesa ha spesso tentato di velare. Maria Maddalena, nella tradizione gnostica, era la "compagna di Cristo", l'unica a comprenderne appieno la dottrina. Allo stesso modo, Jacopa incarna per Francesco il ruolo di un'anima gemella, capace di un amore che si manifesta nella cura e nella tenerezza.

Il Viaggio e il Mio Amore per Francesco
La grandezza di Francesco non si misurò nelle battaglie, ma nell'amore. Il suo viaggio nel 1219 a Damietta, in Egitto, non fu un'impresa di conversione, ma un atto di profondo dialogo. Il suo incontro con il Sultano al-Kamil fu un'unione di cuori che si riconoscevano nella ricerca della verità, un evento che dimostra come l'amore e la pace possano vincere la spada, creando un ponte spirituale di riconoscimento reciproco.
Ecco. Francesco non ha mai rinunciato ai suoi ideali. Li ha vissuti. Li ha testimoniati. Ma senza giudizi e condanne. Con amore e luce.

La sua adozione del Tau fu un simbolo di umiltà e di accettazione della croce di Cristo come via di salvezza. Cristo che fu il primo a testimoniare il proprio amore attraverso la sua vita, e la sua straziante morte. Al di là dell'aspetto teologico, la realtà della sua concretezza è già infinitamente potente e Francesco la condivise, in un tempo storico documentato e documentabile.

Il suo Testamento, scritto poco prima di morire, fu il suo ultimo, accorato appello: "Ritornate alle origini, alla nostra povertà e al nostro amore". Un monito che mi parla direttamente, un invito a cercare la verità non nei libri o nelle istituzioni, ma nel mio cuore, a vivere con coraggio, dolcezza e un profondo amore per tutte le creature.
Francesco non è un santo del passato. È un amico che mi prende per mano, un maestro che mi guida in un viaggio interiore, a riscoprire la mia anima e a diventare il vero "muratore" del mio mondo, un mondo dove la povertà è ricchezza, l'amore è una forza e il dialogo una via di pace.
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venerdì 10 ottobre 2025

Il cagnolino ammaestrato e la difficoltà di comunicazione

Questo post discende da un episodio appena accaduto, quando un familiare ha menzionato, quasi distrattamente, una serie di antichi cimeli casalinghi, distribuiti in dono a destra ed a sinistra senza particolare riguardo.
Un'affermazione innocua, che però ha agito come una chiave in una serratura arrugginita, sbloccando un'area della memoria che credevo sigillata o, quantomeno, mitigata dal tempo. È il ricordo, intriso di tenerezza, ma doloroso per la sua mancanza, di mia nonna, che tanta parte ha avuto nella mia vita affettiva ed educativa.
I ricordi della sua presenza si manifestano solo nell'intangibile della mente, poiché mio padre, del tutto disinteressato al valore affettivo degli oggetti, non si curò di conservarne alcuno, donandoli tutti. Questa riemersione, improvvisa e inaspettata, ha generato in me un'onda emotiva che si è tradotta in un tono di voce più vivace, non aggressivo, ma carico di una malcelata commozione, quasi un tentativo di dare corpo al ricordo attraverso l'enfasi.
La risposta del mio familiare non è stata, tuttavia, quella che l'emozione, seppur contenuta, pareva richiedere. Non una parola di comprensione, né un gesto di accoglienza o di conforto.
La reazione è stata, perentoria e sferzante: "Non alzare la voce."
Terrificante.
Certo. La "norma" è chiara. Non si alza la voce. E in effetti, nella pratica quotidiana, questa è una regola che osservo con scrupolosa attenzione, e chi mi conosce lo sa.
Ma il punto non è la regola in sé, quanto la sua applicazione in un contesto emotivo delicato. Mi chiedo: ci si aspetta forse che un ricordo doloroso, che scuote le fondamenta della mia, della nostra interiorità, non possa indurre una pur minima manifestazione emotiva esterna?
La domanda si fa strada, insistente: siamo condannati a essere, nel rapporto con i familiari, gli amici e il mondo intero, nient'altro che cagnolini ammaestrati? Esseri pronti a eseguire solo i comandi, a comportarsi esattamente come richiesto, senza la benché minima libertà di manifestare una fragilità, una debolezza, un dolore, un'emozione autentica?
La disconnessione è palese e preoccupante. La reazione del mio familiare ha bypassato completamente il contenuto emotivo del mio racconto, focalizzandosi esclusivamente sulla forma, sul tono. Il messaggio implicito è chiaro: l'emozione, se si manifesta in modo troppo evidente, è un disturbo, qualcosa da sedare, da ricondurre entro i margini della compostezza pretesa. Non è il dolore che viene ascoltato, ma il suo volume a essere giudicato.
Questa dinamica mi porta alla metafora del "cagnolino ammaestrato". L'emozione spontanea – il dolore, la gioia incontenibile, la rabbia – viene etichettata come un "comportamento indesiderato" da correggere, da addomesticare. Si deve stare zitti, composti, educati, indipendentemente da ciò che si prova. Questo non è controllo, è repressione. È la negazione di una parte essenziale del mio essere.
Per Pirandello, lo sappiamo bene, ogni individuo è costretto a indossare una o più maschere imposte dalla società, dalla famiglia, e persino da sé stesso. Questa maschera è l'immagine che gli altri si aspettano e percepiscono di noi, e che noi stessi finiamo per accettare come la nostra unica realtà. L'uomo, diventando un "personaggio", perde la sua autenticità, la sua essenza più profonda. Nel mio caso, la maschera sarebbe quella del "cagnolino ammaestrato", l'individuo che si comporta in modo socialmente accettabile, che non disturba, che non alza la voce, anche quando l'emozione lo vorrebbe. La maschera è una prigione, un abito che ci nasconde e ci soffoca.
Eppure, sono convinto che esista una tesi alternativa, un'affermazione di dignità emotiva. L'espressione delle emozioni, anche quelle scomode o dolorose, è una parte fondamentale della comunicazione autentica. Non è una mancanza di controllo, ma un segno di accettazione della propria e altrui fragilità. Il "cagnolino ammaestrato" rappresenta l'opposto: un individuo che ha imparato a reprimere per non disturbare, per conformarsi a un'idea di civiltà che privilegia la superficie sulla profondità.
Certo, si potrebbe argomentare che il controllo emotivo sia un segno di maturità, di rispetto per l'altro. Un tono di voce elevato può, oggettivamente, disturbare. Questa è la prospettiva che probabilmente ha guidato la risposta del mio familiare.
Ma in questo specifico contesto, tale approccio ha prodotto un effetto di distanza e non di vicinanza. Ha eretto un muro laddove poteva nascere un ponte, ha interrotto un flusso anziché accoglierlo.
La conclusione si impone con chiarezza dolorosa: il problema non era il tono della mia voce, ma l'incapacità o la riluttanza del mio interlocutore di accogliere l'emozione che quel tono esprimeva.
La comunicazione, infatti, non è solo uno scambio di informazioni asettiche, ma soprattutto di stati d'animo, di fragilità e di dolori che chiedono di essere visti e riconosciuti. Siamo disposti a rompere il patto implicito del "cagnolino ammaestrato" per permettere una comunicazione più autentica, anche a costo di affrontare e accogliere le complesse sfumature emotive che essa porta con sé? La domanda resta aperta, in attesa di una risposta che spesso, purtroppo, non arriva mai.
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mercoledì 8 ottobre 2025

Non chiedetemi consigli, so solo sbagliare


Per questo post ho parafrasato una frase famosa — beninteso, famosa solo nella mia famiglia d'origine, ormai ridotta a un solo sopravvissuto: me — che mio nonno amava pronunciare: “non datemi consigli, so sbagliare da solo”.
Io invece l’ho estroflessa, trasformandola in un suggerimento cautelativo.
Eh sì, perché a volte le persone, forse condizionate dai miei capelli bianchi, o magari dalla figura lenta e pacata che sono diventato con l’età, si rivolgono affettuosamente a me per cercare qualche spunto, qualche chiave che li aiuti a inquadrare diversamente gli innumerevoli problemi della vita.
Beh, non fatelo.
Non fatelo perché io so solo sbagliare.
Non ho mai pensato che giudicare, soppesare, misurare gli altri e le loro vicende fosse un compito facile. Tant’è che, una volta innamoratomi del diritto e tentata per due anni la preparazione per il concorso di uditore giudiziario (prima qualifica del neo magistrato), mi resi improvvisamente conto che quel compito non faceva per me.
Con quale coraggio, pensavo, posso pesare e assegnare un valore alle intenzioni e agli atti di un uomo?
Perché vedete, anche se amiamo pensare di essere liberi, di godere del libero arbitrio, e di poter scegliere il nostro futuro e i nostri comportamenti rimanendone esclusivamente responsabili, fin da giovane età mi ero reso conto che ciò non corrisponde affatto alla verità.
Noi siamo il risultato di una serie quasi infinita di azioni e reazioni, di eventi e conseguenze che, radicati nel nostro passato e nel nostro vissuto, condizionano scelte e condotte in maniera molto più significativa di quanto si pensi.
Una volta diventato avvocato, e avvicinatomi al mondo della mediazione e del counseling, ho preso conoscenza delle ultime scoperte delle neuroscienze, secondo le quali una qualunque decisione si basa su una fase di deliberazione in cui confrontiamo opzioni, valutiamo conseguenze, consideriamo obiettivi, bias interni, motivazioni, benefici e costi. Tuttavia, e ciò è fondamentale, durante questa deliberazione sono i processi inconsci, e non quelli consci, a preparare “la direzione” prima ancora che la coscienza addirittura se ne accorga.
Solo **dopo** che l’azione è avviata — attenzione — compare la coscienza dell’intenzione: l’esperienza soggettiva del “decidere”, del “voglio fare”. È un effetto collaterale, o comunque una parte integrata del processo, ma non la sua origine.
Le ricerche neuroscientifiche più solide — da Libet in poi, confermate da studi successivi con fMRI, EEG e anche registrazioni intracorticali — mostrano che l’attività neuronale che porta a un’azione comincia prima che la coscienza ne abbia consapevolezza. In pratica, il cervello “decide” o prepara la decisione alcune centinaia di millisecondi prima che tu senta di aver deciso.
Solo e soltanto a questo punto, finalmente entra in scena la corteccia prefrontale e parietale, che ha un ruolo cruciale: costruire una narrazione coerente. La coscienza, in questo senso, non genera la decisione, ma la interpreta, la razionalizza e la integra nella continuità dell’Io.
Riassumendo:
* le decisioni nascono dall’inconscio, non dalla logica;
* la ragione arriva dopo e costruisce una spiegazione coerente;
* l’educazione modella i presupposti su cui l’inconscio lavora, ma non lo comanda;
* traumi, memorie e condizionamenti profondi determinano gran parte del campo decisionale;
* quella che chiamiamo “volontà razionale” è solo una collaborazione imperfetta tra il cervello profondo e la sua interfaccia linguistica.
Tutto questo è frutto di ricerche scientifiche pubblicate e dimostrabili.
Io, nel mio profondo bisogno di relazione, in qualche modo lo avevo intuito fin dall’adolescenza. Non per merito, lo sottolineo, ma per bisogno.
Proprio questo bisogno mi ha costantemente spinto ad avvicinarmi all’altro, a cercarne la confidenza più profonda, ad accettarne comunque l’essere senza giudizio e senza valutazione, con il solo desiderio di capire, di comprendere il suo mondo interiore. A toccarne l'anima, insomma.
Tutto questo mi ha sicuramente aiutato nella mia professione, rendendomi un avvocato diverso e decisamente più efficace: a taluni questa cosa è piaciuta, a molti altri no. Una delle “accuse” che mi sono sentito rivolgere tante volte è stata: “avvocato, lei è una persona meravigliosa ma… troppo buona. Io voglio distruggere il mio avversario, lei non va bene per questo”.
In realtà non sono affatto "buono". Non è bontà, ma ricerca delle motivazioni e del giusto equilibrio. Tuttavia nel frattempo si perde l'incarico ed i soldi. Che pure servono, sapete?
Nonostante mi sia costato molto, ho sempre scelto di continuare sulla mia strada, giusta o sbagliata che fosse, perché ho sempre sentito che se avessi cambiato impostazione non sarei stato credibile. E, soprattutto, avrei provato un malessere troppo profondo per andare avanti.
Poi si è manifestato un ulteriore problema, che è quello che mi spinge a scrivere queste righe: mi sono accorto di non saper “giudicare” gli altri.
Giudicare un uomo o una donna significa valutarne l’idoneità rispetto a una condizione o a un progetto, pesarne le capacità operative e i possibili limiti.
Io non sono capace. Non lo sono perché in ognuno vedo del bello, delle potenzialità, delle capacità che sono lì, disponibili. E così, a meno di macroevidenze, van tutti bene.
Solo che poi, nella pratica, quando le cose si fanno difficili e le decisioni incombono, emergono le dinamiche profonde e… vengono fuori tendenze invisibili sul piano logico-cognitivo.
Così fallisco sistematicamente, a volte assai dolorosamente. Molto, molto dolorosamente. Non sapete quanto.
Mi sforzo di comprendere, capire, accogliere. Ma mi rendo conto che, negli atti concreti, le conseguenze sono spesso complicate e disfunzionali.
E io ne pago il prezzo, o ancor peggio, lo faccio pagare ad altri che si sono fidati di me e del mio “giudizio”.
Dunque l’unica conclusione possibile è quella: **non chiedetemi consigli, perché io sbaglio. Sbaglio assai di frequente. E la cosa tragica è che non so, anzi non voglio, fare diversamente.**
Non chiedetemi consigli, dunque. So solo sbagliare. Ma, se serve, posso almeno restare ed ascoltare.
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mercoledì 1 ottobre 2025

Strumenti, non esseri umani.

Lo spunto per questa riflessione me l’ha offerto il bellissimo film “le assaggiatrici”, (in tedesco nel film, ma titolo italiano) del regista Silvio Soldini e basato sul romanzo omonimo di Rosella Postorino, pubblicato da Feltrinelli nel 2018, che a sua volta si ispira alla vicenda reale di Margot Wölk, l’ultima delle cosiddette assaggiatrici di Hitler.


In breve, l’azione si svolge nell’autunno del 1943. Rosa (interpretata da Elisa Schlott), giovane evacuata dalla Berlino bombardata e senza cibo, si rifugia presso i suoceri in un villaggio prussiano isolato vicino al confine orientale.  Scopre che vicino c’è il quartier generale di Hitler, la “Tana del Lupo” (Wolfsschanze).  Rosa e altre donne del villaggio vengono “arruolate” (coercitivamente) come assaggiatrici dei pasti destinati a Hitler, per verificare che non siano avvelenati. Ogni boccone può essere potenzialmente mortale. 

Tra queste donne nascono amicizie, alleanze, segreti. Rosa fatica a inserirsi nel gruppo per la sua estraneità (è berlinese, nuova lì). C’è anche una componente sentimentale / di tensione: Rosa si avvicina a un ufficiale delle SS, rapporto emotivamente e moralmente complicato, che le provoca senso di colpa.


Al di là della narrazione filmica, la verità storica è che un gruppo di donne, tedesche, libere e sane, furono tenute sotto controllo dalle SS, costrette a rischiare la vita quotidianamente per proteggere Hitler da un possibile avvelenamento. Di loro, solo una sopravvissuta parlò, tardi e quasi per liberarsi del peso della memoria.


Dunque, non si trattava di prigionieri di guerra, o di qualche appartenente a minoranze sgradite. No, Erano normalissime ragazze tedesche, peraltro spesso vedove di guerra e che quindi avevano già pagato un prezzo severo per sostenere i progetti del nazismo. Nonostante questo, furono considerate carne sacrificabile, nell’interesse della salute del fuhrer.


Ebbene, mi sono chiesto: quante volte noi stessi declassifichiamo gli altri (e non solo) a rango di strumenti sacrificabili? Quanto spesso nella nostra vita comune usiamo gli altri senza provare alcuna pena per il loro dolore, la loro sofferenza, la loro paura così tanto uguale alla nostra?

La risposta purtroppo è: spesso, troppo spesso.


Le assaggiatrici incarnano la riduzione assoluta dell’individuo a strumento: il loro corpo non appartiene più a loro stesse, ma diventa barriera biologica tra il tiranno e la sua paura. È la negazione della dignità umana: la vita di molte donne vale meno della sopravvivenza di un solo uomo.


Chi trasforma un altro essere umano in strumento non ignora che quello prova dolore, paura, desiderio. Anzi, lo sa benissimo. Ma “spegne” selettivamente la risonanza con quell’umanità, come se fosse un interruttore. È un autismo empatico: la facoltà di comprendere resta, ma viene sospesa o anestetizzata per servire un fine utilitario.


Questo atteggiamento non appartiene solo ai dittatori o ai carnefici nei grandi drammi storici: è inscritto nella struttura della nostra specie. Lo vediamo nelle relazioni quotidiane: nel collega sfruttato come strumento per il proprio avanzamento; nell’amico usato come specchio per rafforzare il proprio ego; nell’animale ridotto a oggetto di consumo; nel pianeta stesso, trattato come giacimento da svuotare.

La dinamica è la stessa: vedo l’altro, so che è vivo e sente, ma scelgo di ignorarlo perché i miei interessi contano di più.


Tendiamo a relegare questo fenomeno al “male assoluto”: i nazisti, i gulag, i genocidi. È più rassicurante credere che sia eccezione, follia, mostruosità. Ma il fatto che sia così diffuso e quotidiano dimostra che non è un’anomalia: è parte integrante dell’umano. La differenza non è tra chi ne è capace e chi no, ma tra chi se ne accorge e chi lo nega.


Già Kant ci metteva in guardia: l’imperativo categorico vieta di trattare l’altro mai solo come mezzo, ma sempre anche come fine. In realtà, la storia mostra che questa è la regola più infranta. Ogni società, anche la più civile, è costruita su gerarchie che trasformano qualcuno in strumento di qualcun altro.


Le donne costrette a mangiare per Hitler rappresentano un caso estremo, ma paradigmatico. Non sono state scelte perché “colpevoli”, né perché “sacrificabili” per natura. Sono state trasformate in strumenti pur restando, agli occhi di chi le dominava, esseri umani come tutti, tanto da instaurare perfino storie “d’amore”. È questo che brucia: la lucida consapevolezza che l’altro soffra non ci impedisce di usarlo.


Ogni civiltà, dalla più arcaica alla più sofisticata, si regge su rapporti di potere che prevedono che qualcuno venga usato per il vantaggio di qualcun altro. Schiavi nell’antichità, servi della gleba nel medioevo, proletari nell’era industriale, precari nell’era digitale. Il grado di raffinatezza cambia, ma la struttura resta: la comunità si fonda su una piramide in cui chi sta in alto consuma la vita di chi sta in basso. Con indifferenza, con ignavia. Basti pensare ai contemporanei fatti ucraini o palestinesi (così come di tantissime altre parti del mondo di cui nemmeno si parla): tutti si affannano in interpretazioni geopolitiche raffinatissime, si avversano sulle diverse sponde politiche... ma di quella gente che muore e delle loro atroci sofferenze fondamentalmente interessa poco. Sono strumenti, anche loro.


La modernità si è raccontata una favola: l’umanesimo, i diritti universali, la dignità dell’uomo. Ma in realtà la società ha semplicemente reso più invisibile il meccanismo della strumentalizzazione. Non vediamo lo sfruttamento che regge i nostri beni di consumo, la sofferenza dietro la tecnologia che usiamo, le catene invisibili che legano il Sud del mondo al Nord. La differenza rispetto a Hitler è solo la scala e la trasparenza.


La civiltà cammina producendo ricchezza a vantaggio di pochi, pochissimi, grazie alla nostra capacità di provare empatia selettiva solo a cerchi concentrici e solo in base alla nostra utilità: ci commuoviamo per chi ci somiglia o ci è vicino; ignoriamo chi è lontano o diverso; usiamo chi è anonimo.

È un meccanismo evolutivo, ma socialmente produce giustificazioni per sistemi di sfruttamento sempre più complessi.


Ci crediamo “più civili” perché non vediamo più la violenza nuda. Non c’è il boia in piazza, non ci sono le assaggiatrici sotto minaccia armata. Ma le logiche sono le stesse: c’è chi rischia la vita nelle miniere di cobalto per garantire la batteria del nostro smartphone, c’è chi lavora in condizioni di semi-schiavitù per produrre i nostri vestiti, c’è chi viene sacrificato alle crisi economiche o ambientali. La violenza è solo dislocata e resa invisibile.


Da Platone in poi, ogni teoria della polis ha sempre implicato che alcuni fossero strumenti. Anche nelle utopie più illuminate (si pensi a Campanella o a Moro), l’ordine sociale comportava che qualcuno sacrificasse parte della propria libertà o del proprio valore per il bene comune. La vera differenza non è tra civiltà e barbarie, ma tra chi lo riconosce e chi lo maschera.


La vicenda diventa allora simbolo: la civiltà è il banchetto del potente, e i corpi degli altri servono a garantirgli che quel banchetto non gli sia fatale. Cambiano i nomi e i contesti, ma la logica è costante: la civiltà vive di “assaggiatrici” invisibili, sempre nuove e sempre sostituibili.


La conclusion è assai amara.

L’uomo non crea società per superare la violenza, ma per organizzarla e renderla funzionale. Ogni civiltà è, in ultima analisi, un sistema di distribuzione della sofferenza: chi deve sopportare i pesi perché altri possano godere dei frutti.


Diritti, etica, religioni, filosofie: sono veli che coprono questa dinamica, non per eliminarla, ma per renderla accettabile. Servono a trasformare la brutalità in narrazione di giustizia, la disuguaglianza in ordine, lo sfruttamento in dovere.


La differenza tra i secoli non è morale, ma ottica. Più la civiltà avanza, più raffina i modi per rendere invisibile la sofferenza su cui poggia. Non ci sono più le assaggiatrici davanti agli occhi, ma ci sono lavoratori nascosti, nature devastate, comunità intere sacrificate fuori dallo sguardo.


Siamo tutti complici: non possiamo vivere senza trasformare altri in strumenti. Ma per non soccombere alla colpa, ci raccontiamo che non è così, che la nostra civiltà è “migliore”. In questo senso, la menzogna non è un tradimento della civiltà: è la civiltà.


Le assaggiatrici di Hitler non sono solo un dettaglio storico: sono l’allegoria spietata della condizione umana. La loro figura ci mostra che non c’è civiltà senza vittime invisibili. Non eccezione, ma regola. Non aberrazione, ma struttura.


Ci resta solo una domanda: anche se non possiamo eliminare ogni forma di strumentalizzazione, possiamo almeno scegliere di non essere noi stessi i carnefici, i complici silenti, o i consumatori indifferenti?


Enrico Franceschetti

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