mercoledì 15 ottobre 2025

Il mio Francesco

Sai, c’è un Francesco che ho imparato a conoscere nel mio cuore, un Francesco che è diverso da quello che ci hanno raccontato. Non è solo un santo, ma un uomo, un fratello, un amico che ha saputo vivere con una profondità e una passione che mi parlano ancora oggi. È il Francesco che non aveva paura di essere se stesso, di essere amato e di amare, in un modo che supera ogni definizione. Questo è il mio Francesco.
La sua storia non inizia con il distacco, ma con un profondo radicamento nel mondo. La sua vita non fu un lampo improvviso, ma un lento fiorire, un cammino che mi ha insegnato che ogni passo, anche quello che sembra sbagliato, ci porta più vicini a noi stessi. La sua giovinezza non fu quella di un poverello, ma di un giovane ricco e vivace, che amava la poesia dei trovatori e sognava la gloria della cavalleria. Fu sua madre, Madonna Pica, a parlargli con il cuore, a trasmettergli il francese melodico e la sensibilità che lo avrebbe reso un "re" tra i suoi coetanei, un animatore di feste e un innamorato della vita.
E poi ci fu l'aspirazione cavalleresca, un sogno che lo condusse a cercare un onore più alto. Le sue avventure non lo resero un guerriero, ma il suo spirito combattivo non morì. Anzi, si trasformò in una battaglia spirituale. Le leggende, che lo collegano a una possibile formazione templare, mi sussurrano che i suoi ideali di obbedienza, povertà e castità non furono un'invenzione, ma la sublimazione del suo desiderio di combattere per un ideale più grande: l'amore e la verità.

Infine, la spoliazione. Quell'atto così potente, così assoluto, non fu un gesto di sconfitta o di umiltà passiva, ma un atto di potenza e di coraggio. Francesco non si stava spogliando solo dei suoi vestiti e dei beni paterni; si stava spogliando dell'identità che il mondo gli aveva imposto. In quel momento, nudo di fronte al vescovo e alla folla, non stava semplicemente "uscendo dal mondo", ma stava affermando di appartenere a un'altra dimensione, a un ordine cosmico che supera la materia.

La spoliazione, in questa prospettiva, è l'atto di nascita del "mio" Francesco.
Francesco abbandona il "tutto" materiale del padre (il denaro, le stoffe, il prestigio) per abbracciare l'Uno spirituale. È un atto alchemico: la materia viene trasmutata in spirito. Non è un rifiuto del mondo, ma una sua riaffermazione in una dimensione più alta e più vera.
Con l'atto di spoliazione, Francesco dichiara che la sua vera famiglia non è più quella terrena, ma quella spirituale. Si libera del nome e dell'eredità del padre per abbracciare un'identità universale che lo lega a ogni creatura, a ogni elemento, a ogni albero. È una rottura per unire, una perdita per un guadagno infinitamente più grande.
Questa lettura trova poi la sua massima espressione nel Cantico delle Creature. Il "Fratello Sole", "Sorella Luna", "Frate Vento" non sono solo figure retoriche. Sono la prova che la spoliazione non ha alienato Francesco dal mondo, ma anzi lo ha riconnesso ad esso in un modo più profondo e intimo. L'universo intero diventa la sua famiglia, e ogni creatura la sua compagna di viaggio.

Il Messaggio Nascosto nel Crocifisso
C’è un momento, fra i tanti che hanno contraddistinto l'inizio della sua storia, che mi ha sempre commosso, uno di quelli che hanno cambiato tutto. Non fu un lampo di luce, ma un sussurro, un invito sussurrato al suo cuore. Nel silenzio della chiesetta di San Damiano, un Cristo Vittorioso e sorridente gli parlò. E' molto importante. Quel Cristo non era morto, con il capo reclinato, sfinito dal dolore e dalle sofferenze, Era vivo, trionfante sulla morte. E non era il volto di un severo giudice, ma di un amico, con le braccia aperte in un abbraccio universale. Se lo guardiamo con gli occhi dell'anima, in quelle fattezze possiamo scorgere anche un "terzo occhio", il simbolo di una visione interiore che vede oltre la superficie delle cose.
Il messaggio fu chiaro: "Va' e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina". Francesco, anche se con qualche iniziale fraintendimento, capì che il suo compito non era quello di ricostruire un edificio di pietra, ma la Chiesa spirituale, un'architettura di anime che si era allontanata dal suo fondamento di amore e di povertà. Le sue mani, che un tempo si erano strette intorno ad una spada, si misero a lavorare la pietra, in un atto d'amore che era, in realtà, la sua preghiera più profonda. In quell'umile mestiere di "muratore", egli si univa, in spirito, a tutti gli artigiani che, nei secoli, hanno costruito le cattedrali. Tale dovere incombe ancora oggi, sui "muratori" eredi di quelli.

Mammo Elia, Sorella Chiara e Frate Jacopa
Nel suo cammino Francesco non fu mai solo. Il suo cammino è illuminato da figure che hanno saputo amarlo e comprenderlo in modi unici e profondi. Frate Bernardo di Quintavalle, che fu il primo a seguirlo. Frate Pietro Cattani, giurista e secondo a unirsi a Francesco. Frate Egidio, noto per la sua famosa frase: "L'uomo non ha bisogno di conoscere molto, ma di amare molto." E poi Frate Sisto, Frate Masseo, Frate Rufino e Frate Leone, a cui Francesco si rivolse in punto di morte.

Tre figure però spiccano su tutte le altre. Frate Elia, a lungo condannato dalla Chiesa e dalla storia ufficiale, per lui è stato il "Mammo". Francesco lo ha sempre sentito al pari di una figura materna, un rifugio. Frate Elia era un uomo di grande cultura e, secondo alcune tradizioni, anche un alchimista, alla corte di Federico II, ma al di là di questo, il suo compito più grande fu quello di accudire e proteggere Francesco. Quella che la storia chiama politica, a me sembra un atto di amore e premura, un tentativo di proteggere il suo fratello, fragile e malato, dalle tempeste del mondo. I simboli esoterici che si dice abbia disseminato nella Basilica di Assisi, ed anche nella sepoltura del suo amico, sono per me la sua firma d’amore, un messaggio nascosto che sussurra la verità a chi sa ascoltare.

Poi, non meno fondamentali, due donne, due anime che lo hanno amato in modi diversi ma complementari. Chiara, la sua prima e più fedele compagna di viaggio, il suo amore mistico, il suo specchio femminile, rappresenta la forza e la resistenza spirituale. La sua lotta per mantenere intatta la Regola di povertà mi insegna che l'amore non è solo tenerezza, ma anche coraggio e determinazione.

Ma, ancora più vicina, c’è stata Jacopa dei Settesoli. Una nobildonna che, pur nella sua ricchezza, incarnò l'amore incondizionato che tanto affascinava Francesco. La sua storia mi parla di un amore che va davvero oltre ogni norma. Lui la chiamava "frate" Jacopa, un gesto d'affetto rivoluzionario per i tempi, che riconosceva in lei un'anima pari, una compagna di viaggio. Lei non cercava la povertà materiale, ma l'intimità del suo cuore, offrendogli un conforto che nessun altro poteva dargli, nemmeno con piccoli piaceri come i suoi biscottini. Non era una sorella, ma, appunto, una compagna. A lei, lui si rivolge sul letto di morte, chiedendole per favore "quei biscottini che sai mi piacciono tanto". E lei corre da lui, ed entra nella sua cella appena prima il momento del transito, unica donna mai ammessa a tanto.

Il loro legame raggiunge il culmine proprio nel momento più fragile di Francesco. Tommaso da Celano, in un passo che mi emoziona ogni volta, ci racconta di Jacopa inginocchiata al capezzale del santo, che lo accarezza "come la Maddalena aveva fatto con Gesù". Egli scrive:
Mentre egli giaceva malato, la signora Jacopa dei Settesoli, come gli angeli, si presenta, anche se le donne erano escluse dal luogo dei frati. Ella aveva ricevuto un biglietto da frate Francesco, che le chiedeva di venire, ma era già in cammino per virtù dello spirito. E ella giunse con una tale ansia che, al vedere il suo amato maestro moribondo, non riuscì a trattenere le lacrime. Egli, allora, le disse: «Sorella carissima, non piangere, ché vedrai presto il mio gaudio e il mio riposo». E mentre la donna piangeva, si chinò sul suo volto e lo carezzò con i suoi capelli, come la Maddalena aveva fatto con Gesù.

Questo paragone non è casuale. Evoca una dimensione di femminile sacro e di amore che la Chiesa ha spesso tentato di velare. Maria Maddalena, nella tradizione gnostica, era la "compagna di Cristo", l'unica a comprenderne appieno la dottrina. Allo stesso modo, Jacopa incarna per Francesco il ruolo di un'anima gemella, capace di un amore che si manifesta nella cura e nella tenerezza.

Il Viaggio e il Mio Amore per Francesco
La grandezza di Francesco non si misurò nelle battaglie, ma nell'amore. Il suo viaggio nel 1219 a Damietta, in Egitto, non fu un'impresa di conversione, ma un atto di profondo dialogo. Il suo incontro con il Sultano al-Kamil fu un'unione di cuori che si riconoscevano nella ricerca della verità, un evento che dimostra come l'amore e la pace possano vincere la spada, creando un ponte spirituale di riconoscimento reciproco.
Ecco. Francesco non ha mai rinunciato ai suoi ideali. Li ha vissuti. Li ha testimoniati. Ma senza giudizi e condanne. Con amore e luce.

La sua adozione del Tau fu un simbolo di umiltà e di accettazione della croce di Cristo come via di salvezza. Cristo che fu il primo a testimoniare il proprio amore attraverso la sua vita, e la sua straziante morte. Al di là dell'aspetto teologico, la realtà della sua concretezza è già infinitamente potente e Francesco la condivise, in un tempo storico documentato e documentabile.

Il suo Testamento, scritto poco prima di morire, fu il suo ultimo, accorato appello: "Ritornate alle origini, alla nostra povertà e al nostro amore". Un monito che mi parla direttamente, un invito a cercare la verità non nei libri o nelle istituzioni, ma nel mio cuore, a vivere con coraggio, dolcezza e un profondo amore per tutte le creature.
Francesco non è un santo del passato. È un amico che mi prende per mano, un maestro che mi guida in un viaggio interiore, a riscoprire la mia anima e a diventare il vero "muratore" del mio mondo, un mondo dove la povertà è ricchezza, l'amore è una forza e il dialogo una via di pace.
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venerdì 10 ottobre 2025

Il cagnolino ammaestrato e la difficoltà di comunicazione

Questo post discende da un episodio appena accaduto, quando un familiare ha menzionato, quasi distrattamente, una serie di antichi cimeli casalinghi, distribuiti in dono a destra ed a sinistra senza particolare riguardo.
Un'affermazione innocua, che però ha agito come una chiave in una serratura arrugginita, sbloccando un'area della memoria che credevo sigillata o, quantomeno, mitigata dal tempo. È il ricordo, intriso di tenerezza, ma doloroso per la sua mancanza, di mia nonna, che tanta parte ha avuto nella mia vita affettiva ed educativa.
I ricordi della sua presenza si manifestano solo nell'intangibile della mente, poiché mio padre, del tutto disinteressato al valore affettivo degli oggetti, non si curò di conservarne alcuno, donandoli tutti. Questa riemersione, improvvisa e inaspettata, ha generato in me un'onda emotiva che si è tradotta in un tono di voce più vivace, non aggressivo, ma carico di una malcelata commozione, quasi un tentativo di dare corpo al ricordo attraverso l'enfasi.
La risposta del mio familiare non è stata, tuttavia, quella che l'emozione, seppur contenuta, pareva richiedere. Non una parola di comprensione, né un gesto di accoglienza o di conforto.
La reazione è stata, perentoria e sferzante: "Non alzare la voce."
Terrificante.
Certo. La "norma" è chiara. Non si alza la voce. E in effetti, nella pratica quotidiana, questa è una regola che osservo con scrupolosa attenzione, e chi mi conosce lo sa.
Ma il punto non è la regola in sé, quanto la sua applicazione in un contesto emotivo delicato. Mi chiedo: ci si aspetta forse che un ricordo doloroso, che scuote le fondamenta della mia, della nostra interiorità, non possa indurre una pur minima manifestazione emotiva esterna?
La domanda si fa strada, insistente: siamo condannati a essere, nel rapporto con i familiari, gli amici e il mondo intero, nient'altro che cagnolini ammaestrati? Esseri pronti a eseguire solo i comandi, a comportarsi esattamente come richiesto, senza la benché minima libertà di manifestare una fragilità, una debolezza, un dolore, un'emozione autentica?
La disconnessione è palese e preoccupante. La reazione del mio familiare ha bypassato completamente il contenuto emotivo del mio racconto, focalizzandosi esclusivamente sulla forma, sul tono. Il messaggio implicito è chiaro: l'emozione, se si manifesta in modo troppo evidente, è un disturbo, qualcosa da sedare, da ricondurre entro i margini della compostezza pretesa. Non è il dolore che viene ascoltato, ma il suo volume a essere giudicato.
Questa dinamica mi porta alla metafora del "cagnolino ammaestrato". L'emozione spontanea – il dolore, la gioia incontenibile, la rabbia – viene etichettata come un "comportamento indesiderato" da correggere, da addomesticare. Si deve stare zitti, composti, educati, indipendentemente da ciò che si prova. Questo non è controllo, è repressione. È la negazione di una parte essenziale del mio essere.
Per Pirandello, lo sappiamo bene, ogni individuo è costretto a indossare una o più maschere imposte dalla società, dalla famiglia, e persino da sé stesso. Questa maschera è l'immagine che gli altri si aspettano e percepiscono di noi, e che noi stessi finiamo per accettare come la nostra unica realtà. L'uomo, diventando un "personaggio", perde la sua autenticità, la sua essenza più profonda. Nel mio caso, la maschera sarebbe quella del "cagnolino ammaestrato", l'individuo che si comporta in modo socialmente accettabile, che non disturba, che non alza la voce, anche quando l'emozione lo vorrebbe. La maschera è una prigione, un abito che ci nasconde e ci soffoca.
Eppure, sono convinto che esista una tesi alternativa, un'affermazione di dignità emotiva. L'espressione delle emozioni, anche quelle scomode o dolorose, è una parte fondamentale della comunicazione autentica. Non è una mancanza di controllo, ma un segno di accettazione della propria e altrui fragilità. Il "cagnolino ammaestrato" rappresenta l'opposto: un individuo che ha imparato a reprimere per non disturbare, per conformarsi a un'idea di civiltà che privilegia la superficie sulla profondità.
Certo, si potrebbe argomentare che il controllo emotivo sia un segno di maturità, di rispetto per l'altro. Un tono di voce elevato può, oggettivamente, disturbare. Questa è la prospettiva che probabilmente ha guidato la risposta del mio familiare.
Ma in questo specifico contesto, tale approccio ha prodotto un effetto di distanza e non di vicinanza. Ha eretto un muro laddove poteva nascere un ponte, ha interrotto un flusso anziché accoglierlo.
La conclusione si impone con chiarezza dolorosa: il problema non era il tono della mia voce, ma l'incapacità o la riluttanza del mio interlocutore di accogliere l'emozione che quel tono esprimeva.
La comunicazione, infatti, non è solo uno scambio di informazioni asettiche, ma soprattutto di stati d'animo, di fragilità e di dolori che chiedono di essere visti e riconosciuti. Siamo disposti a rompere il patto implicito del "cagnolino ammaestrato" per permettere una comunicazione più autentica, anche a costo di affrontare e accogliere le complesse sfumature emotive che essa porta con sé? La domanda resta aperta, in attesa di una risposta che spesso, purtroppo, non arriva mai.
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mercoledì 8 ottobre 2025

Non chiedetemi consigli, so solo sbagliare


Per questo post ho parafrasato una frase famosa — beninteso, famosa solo nella mia famiglia d'origine, ormai ridotta a un solo sopravvissuto: me — che mio nonno amava pronunciare: “non datemi consigli, so sbagliare da solo”.
Io invece l’ho estroflessa, trasformandola in un suggerimento cautelativo.
Eh sì, perché a volte le persone, forse condizionate dai miei capelli bianchi, o magari dalla figura lenta e pacata che sono diventato con l’età, si rivolgono affettuosamente a me per cercare qualche spunto, qualche chiave che li aiuti a inquadrare diversamente gli innumerevoli problemi della vita.
Beh, non fatelo.
Non fatelo perché io so solo sbagliare.
Non ho mai pensato che giudicare, soppesare, misurare gli altri e le loro vicende fosse un compito facile. Tant’è che, una volta innamoratomi del diritto e tentata per due anni la preparazione per il concorso di uditore giudiziario (prima qualifica del neo magistrato), mi resi improvvisamente conto che quel compito non faceva per me.
Con quale coraggio, pensavo, posso pesare e assegnare un valore alle intenzioni e agli atti di un uomo?
Perché vedete, anche se amiamo pensare di essere liberi, di godere del libero arbitrio, e di poter scegliere il nostro futuro e i nostri comportamenti rimanendone esclusivamente responsabili, fin da giovane età mi ero reso conto che ciò non corrisponde affatto alla verità.
Noi siamo il risultato di una serie quasi infinita di azioni e reazioni, di eventi e conseguenze che, radicati nel nostro passato e nel nostro vissuto, condizionano scelte e condotte in maniera molto più significativa di quanto si pensi.
Una volta diventato avvocato, e avvicinatomi al mondo della mediazione e del counseling, ho preso conoscenza delle ultime scoperte delle neuroscienze, secondo le quali una qualunque decisione si basa su una fase di deliberazione in cui confrontiamo opzioni, valutiamo conseguenze, consideriamo obiettivi, bias interni, motivazioni, benefici e costi. Tuttavia, e ciò è fondamentale, durante questa deliberazione sono i processi inconsci, e non quelli consci, a preparare “la direzione” prima ancora che la coscienza addirittura se ne accorga.
Solo **dopo** che l’azione è avviata — attenzione — compare la coscienza dell’intenzione: l’esperienza soggettiva del “decidere”, del “voglio fare”. È un effetto collaterale, o comunque una parte integrata del processo, ma non la sua origine.
Le ricerche neuroscientifiche più solide — da Libet in poi, confermate da studi successivi con fMRI, EEG e anche registrazioni intracorticali — mostrano che l’attività neuronale che porta a un’azione comincia prima che la coscienza ne abbia consapevolezza. In pratica, il cervello “decide” o prepara la decisione alcune centinaia di millisecondi prima che tu senta di aver deciso.
Solo e soltanto a questo punto, finalmente entra in scena la corteccia prefrontale e parietale, che ha un ruolo cruciale: costruire una narrazione coerente. La coscienza, in questo senso, non genera la decisione, ma la interpreta, la razionalizza e la integra nella continuità dell’Io.
Riassumendo:
* le decisioni nascono dall’inconscio, non dalla logica;
* la ragione arriva dopo e costruisce una spiegazione coerente;
* l’educazione modella i presupposti su cui l’inconscio lavora, ma non lo comanda;
* traumi, memorie e condizionamenti profondi determinano gran parte del campo decisionale;
* quella che chiamiamo “volontà razionale” è solo una collaborazione imperfetta tra il cervello profondo e la sua interfaccia linguistica.
Tutto questo è frutto di ricerche scientifiche pubblicate e dimostrabili.
Io, nel mio profondo bisogno di relazione, in qualche modo lo avevo intuito fin dall’adolescenza. Non per merito, lo sottolineo, ma per bisogno.
Proprio questo bisogno mi ha costantemente spinto ad avvicinarmi all’altro, a cercarne la confidenza più profonda, ad accettarne comunque l’essere senza giudizio e senza valutazione, con il solo desiderio di capire, di comprendere il suo mondo interiore. A toccarne l'anima, insomma.
Tutto questo mi ha sicuramente aiutato nella mia professione, rendendomi un avvocato diverso e decisamente più efficace: a taluni questa cosa è piaciuta, a molti altri no. Una delle “accuse” che mi sono sentito rivolgere tante volte è stata: “avvocato, lei è una persona meravigliosa ma… troppo buona. Io voglio distruggere il mio avversario, lei non va bene per questo”.
In realtà non sono affatto "buono". Non è bontà, ma ricerca delle motivazioni e del giusto equilibrio. Tuttavia nel frattempo si perde l'incarico ed i soldi. Che pure servono, sapete?
Nonostante mi sia costato molto, ho sempre scelto di continuare sulla mia strada, giusta o sbagliata che fosse, perché ho sempre sentito che se avessi cambiato impostazione non sarei stato credibile. E, soprattutto, avrei provato un malessere troppo profondo per andare avanti.
Poi si è manifestato un ulteriore problema, che è quello che mi spinge a scrivere queste righe: mi sono accorto di non saper “giudicare” gli altri.
Giudicare un uomo o una donna significa valutarne l’idoneità rispetto a una condizione o a un progetto, pesarne le capacità operative e i possibili limiti.
Io non sono capace. Non lo sono perché in ognuno vedo del bello, delle potenzialità, delle capacità che sono lì, disponibili. E così, a meno di macroevidenze, van tutti bene.
Solo che poi, nella pratica, quando le cose si fanno difficili e le decisioni incombono, emergono le dinamiche profonde e… vengono fuori tendenze invisibili sul piano logico-cognitivo.
Così fallisco sistematicamente, a volte assai dolorosamente. Molto, molto dolorosamente. Non sapete quanto.
Mi sforzo di comprendere, capire, accogliere. Ma mi rendo conto che, negli atti concreti, le conseguenze sono spesso complicate e disfunzionali.
E io ne pago il prezzo, o ancor peggio, lo faccio pagare ad altri che si sono fidati di me e del mio “giudizio”.
Dunque l’unica conclusione possibile è quella: **non chiedetemi consigli, perché io sbaglio. Sbaglio assai di frequente. E la cosa tragica è che non so, anzi non voglio, fare diversamente.**
Non chiedetemi consigli, dunque. So solo sbagliare. Ma, se serve, posso almeno restare ed ascoltare.
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mercoledì 1 ottobre 2025

Strumenti, non esseri umani.

Lo spunto per questa riflessione me l’ha offerto il bellissimo film “le assaggiatrici”, (in tedesco nel film, ma titolo italiano) del regista Silvio Soldini e basato sul romanzo omonimo di Rosella Postorino, pubblicato da Feltrinelli nel 2018, che a sua volta si ispira alla vicenda reale di Margot Wölk, l’ultima delle cosiddette assaggiatrici di Hitler.


In breve, l’azione si svolge nell’autunno del 1943. Rosa (interpretata da Elisa Schlott), giovane evacuata dalla Berlino bombardata e senza cibo, si rifugia presso i suoceri in un villaggio prussiano isolato vicino al confine orientale.  Scopre che vicino c’è il quartier generale di Hitler, la “Tana del Lupo” (Wolfsschanze).  Rosa e altre donne del villaggio vengono “arruolate” (coercitivamente) come assaggiatrici dei pasti destinati a Hitler, per verificare che non siano avvelenati. Ogni boccone può essere potenzialmente mortale. 

Tra queste donne nascono amicizie, alleanze, segreti. Rosa fatica a inserirsi nel gruppo per la sua estraneità (è berlinese, nuova lì). C’è anche una componente sentimentale / di tensione: Rosa si avvicina a un ufficiale delle SS, rapporto emotivamente e moralmente complicato, che le provoca senso di colpa.


Al di là della narrazione filmica, la verità storica è che un gruppo di donne, tedesche, libere e sane, furono tenute sotto controllo dalle SS, costrette a rischiare la vita quotidianamente per proteggere Hitler da un possibile avvelenamento. Di loro, solo una sopravvissuta parlò, tardi e quasi per liberarsi del peso della memoria.


Dunque, non si trattava di prigionieri di guerra, o di qualche appartenente a minoranze sgradite. No, Erano normalissime ragazze tedesche, peraltro spesso vedove di guerra e che quindi avevano già pagato un prezzo severo per sostenere i progetti del nazismo. Nonostante questo, furono considerate carne sacrificabile, nell’interesse della salute del fuhrer.


Ebbene, mi sono chiesto: quante volte noi stessi declassifichiamo gli altri (e non solo) a rango di strumenti sacrificabili? Quanto spesso nella nostra vita comune usiamo gli altri senza provare alcuna pena per il loro dolore, la loro sofferenza, la loro paura così tanto uguale alla nostra?

La risposta purtroppo è: spesso, troppo spesso.


Le assaggiatrici incarnano la riduzione assoluta dell’individuo a strumento: il loro corpo non appartiene più a loro stesse, ma diventa barriera biologica tra il tiranno e la sua paura. È la negazione della dignità umana: la vita di molte donne vale meno della sopravvivenza di un solo uomo.


Chi trasforma un altro essere umano in strumento non ignora che quello prova dolore, paura, desiderio. Anzi, lo sa benissimo. Ma “spegne” selettivamente la risonanza con quell’umanità, come se fosse un interruttore. È un autismo empatico: la facoltà di comprendere resta, ma viene sospesa o anestetizzata per servire un fine utilitario.


Questo atteggiamento non appartiene solo ai dittatori o ai carnefici nei grandi drammi storici: è inscritto nella struttura della nostra specie. Lo vediamo nelle relazioni quotidiane: nel collega sfruttato come strumento per il proprio avanzamento; nell’amico usato come specchio per rafforzare il proprio ego; nell’animale ridotto a oggetto di consumo; nel pianeta stesso, trattato come giacimento da svuotare.

La dinamica è la stessa: vedo l’altro, so che è vivo e sente, ma scelgo di ignorarlo perché i miei interessi contano di più.


Tendiamo a relegare questo fenomeno al “male assoluto”: i nazisti, i gulag, i genocidi. È più rassicurante credere che sia eccezione, follia, mostruosità. Ma il fatto che sia così diffuso e quotidiano dimostra che non è un’anomalia: è parte integrante dell’umano. La differenza non è tra chi ne è capace e chi no, ma tra chi se ne accorge e chi lo nega.


Già Kant ci metteva in guardia: l’imperativo categorico vieta di trattare l’altro mai solo come mezzo, ma sempre anche come fine. In realtà, la storia mostra che questa è la regola più infranta. Ogni società, anche la più civile, è costruita su gerarchie che trasformano qualcuno in strumento di qualcun altro.


Le donne costrette a mangiare per Hitler rappresentano un caso estremo, ma paradigmatico. Non sono state scelte perché “colpevoli”, né perché “sacrificabili” per natura. Sono state trasformate in strumenti pur restando, agli occhi di chi le dominava, esseri umani come tutti, tanto da instaurare perfino storie “d’amore”. È questo che brucia: la lucida consapevolezza che l’altro soffra non ci impedisce di usarlo.


Ogni civiltà, dalla più arcaica alla più sofisticata, si regge su rapporti di potere che prevedono che qualcuno venga usato per il vantaggio di qualcun altro. Schiavi nell’antichità, servi della gleba nel medioevo, proletari nell’era industriale, precari nell’era digitale. Il grado di raffinatezza cambia, ma la struttura resta: la comunità si fonda su una piramide in cui chi sta in alto consuma la vita di chi sta in basso. Con indifferenza, con ignavia. Basti pensare ai contemporanei fatti ucraini o palestinesi (così come di tantissime altre parti del mondo di cui nemmeno si parla): tutti si affannano in interpretazioni geopolitiche raffinatissime, si avversano sulle diverse sponde politiche... ma di quella gente che muore e delle loro atroci sofferenze fondamentalmente interessa poco. Sono strumenti, anche loro.


La modernità si è raccontata una favola: l’umanesimo, i diritti universali, la dignità dell’uomo. Ma in realtà la società ha semplicemente reso più invisibile il meccanismo della strumentalizzazione. Non vediamo lo sfruttamento che regge i nostri beni di consumo, la sofferenza dietro la tecnologia che usiamo, le catene invisibili che legano il Sud del mondo al Nord. La differenza rispetto a Hitler è solo la scala e la trasparenza.


La civiltà cammina producendo ricchezza a vantaggio di pochi, pochissimi, grazie alla nostra capacità di provare empatia selettiva solo a cerchi concentrici e solo in base alla nostra utilità: ci commuoviamo per chi ci somiglia o ci è vicino; ignoriamo chi è lontano o diverso; usiamo chi è anonimo.

È un meccanismo evolutivo, ma socialmente produce giustificazioni per sistemi di sfruttamento sempre più complessi.


Ci crediamo “più civili” perché non vediamo più la violenza nuda. Non c’è il boia in piazza, non ci sono le assaggiatrici sotto minaccia armata. Ma le logiche sono le stesse: c’è chi rischia la vita nelle miniere di cobalto per garantire la batteria del nostro smartphone, c’è chi lavora in condizioni di semi-schiavitù per produrre i nostri vestiti, c’è chi viene sacrificato alle crisi economiche o ambientali. La violenza è solo dislocata e resa invisibile.


Da Platone in poi, ogni teoria della polis ha sempre implicato che alcuni fossero strumenti. Anche nelle utopie più illuminate (si pensi a Campanella o a Moro), l’ordine sociale comportava che qualcuno sacrificasse parte della propria libertà o del proprio valore per il bene comune. La vera differenza non è tra civiltà e barbarie, ma tra chi lo riconosce e chi lo maschera.


La vicenda diventa allora simbolo: la civiltà è il banchetto del potente, e i corpi degli altri servono a garantirgli che quel banchetto non gli sia fatale. Cambiano i nomi e i contesti, ma la logica è costante: la civiltà vive di “assaggiatrici” invisibili, sempre nuove e sempre sostituibili.


La conclusion è assai amara.

L’uomo non crea società per superare la violenza, ma per organizzarla e renderla funzionale. Ogni civiltà è, in ultima analisi, un sistema di distribuzione della sofferenza: chi deve sopportare i pesi perché altri possano godere dei frutti.


Diritti, etica, religioni, filosofie: sono veli che coprono questa dinamica, non per eliminarla, ma per renderla accettabile. Servono a trasformare la brutalità in narrazione di giustizia, la disuguaglianza in ordine, lo sfruttamento in dovere.


La differenza tra i secoli non è morale, ma ottica. Più la civiltà avanza, più raffina i modi per rendere invisibile la sofferenza su cui poggia. Non ci sono più le assaggiatrici davanti agli occhi, ma ci sono lavoratori nascosti, nature devastate, comunità intere sacrificate fuori dallo sguardo.


Siamo tutti complici: non possiamo vivere senza trasformare altri in strumenti. Ma per non soccombere alla colpa, ci raccontiamo che non è così, che la nostra civiltà è “migliore”. In questo senso, la menzogna non è un tradimento della civiltà: è la civiltà.


Le assaggiatrici di Hitler non sono solo un dettaglio storico: sono l’allegoria spietata della condizione umana. La loro figura ci mostra che non c’è civiltà senza vittime invisibili. Non eccezione, ma regola. Non aberrazione, ma struttura.


Ci resta solo una domanda: anche se non possiamo eliminare ogni forma di strumentalizzazione, possiamo almeno scegliere di non essere noi stessi i carnefici, i complici silenti, o i consumatori indifferenti?


Enrico Franceschetti

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venerdì 8 agosto 2025

L'Occidente Anestetizzato: Anatomia di una Crisi Silenziosa

 

L'Occidente, e in particolare l'Europa, vive in una condizione di anestesia di massa che rende l'uomo incapace di un qualsiasi vero cambiamento interiore. Non è una deriva casuale, ma il risultato di decenni di scelte politiche, economiche e culturali volte a eliminare ogni frizione con la realtà. L'essere umano non cresce senza ostacoli e senza mancanza; eppure, abbiamo costruito un mondo dove il disagio è percepito come un'anomalia da rimuovere immediatamente, non come parte integrante del percorso di vita. Questa anestesia, che ci avvolge come un sudario confortevole, si regge su cinque pilastri, i muri di una prigione dorata.

1. Il Comfort Permanente. Dalle cure mediche al cibo, dal calore domestico all'intrattenimento, ogni bisogno è prontamente soddisfatto. Chi ne è privo viene visto non come parte della durezza naturale della vita, ma come vittima di un'ingiustizia. Questo stato di agio ininterrotto ha atrofizzato la nostra capacità di sopportare le difficoltà, sostituendo la resilienza con la richiesta costante di comodità.

2. L'Iperstimolazione Continua. Siamo sommersi da una valanga ininterrotta di immagini, notifiche e contenuti mordi-e-fuggì, un rumore costante che distrugge la nostra capacità di attenzione e di introspezione. Eppure, proprio l'attenzione e la quiete interiore sono gli unici strumenti per un autentico lavoro su di sé. Abbiamo scambiato la profondità con la superficialità.

3. La Narrazione Unica. Scuola, media e cultura popolare propongono una visione semplificata e filtrata del mondo. Non si incoraggia il pensiero critico, ma l'accettazione di un'unica visione della realtà. Ciò riduce la necessità di sviluppare un pensiero autonomo, minando le fondamenta di ogni percorso di conoscenza.

4. L'Individualismo Edonista. L'io e il suo piacere momentaneo sono diventati l'unica unità di misura. Concetti come comunità, destino collettivo e sacrificio sono svuotati di senso, relegati a vecchi cliché di un'era passata. Si vive per l'istante, dimenticando il passato e non costruendo il futuro.

5. L'Assenza di Prove Autentiche. Le istituzioni, tanto religiose quanto laiche, non propongono più veri percorsi trasformativi. Offrono spiritualità "light" e un attivismo superficiale che non tocca le radici dell'essere. Hanno perso la capacità di forgiare l'anima, limitandosi a decorare il guscio vuoto.

Il risultato è un uomo che non è solo impreparato al cambiamento, ma non percepisce nemmeno la necessità di cambiare.


La Crisi: Il Martello che Potrebbe Annullare il Vaso

In questo contesto, ogni appello alla rinascita rischia di restare lettera morta. La storia, purtroppo, ci insegna che l'unico shock capace di spezzare questo sistema anestetico è una crisi profonda e radicale: una guerra, un collasso economico, un disastro energetico o una pandemia con alta mortalità. Non si tratta di emergenze gestibili, ma di eventi che obblighino le persone a rinunciare a comfort, abitudini e certezze in modo immediato e irrevocabile.

Una crisi del genere, tuttavia, non garantisce automaticamente una rinascita. Può produrre due scenari diametralmente opposti:

  • Se l'uomo ha ancora un patrimonio morale e culturale vivo, il trauma può forgiare una generazione nuova, più consapevole e radicata.

  • Se invece la crisi lo coglie svuotato spiritualmente, la reazione sarà quella di un animale spaventato. Si manifesterà un tribalismo cieco, un ritorno al buio. Le conseguenze non sarebbero solo egoismo e violenza, ma un nuovo interregno medievale, dove la caduta di ogni struttura sociale porterebbe a carestie, malattie e una lotta selvaggia per la sopravvivenza. In un tale scenario, ogni progresso e ogni forma di umanità potrebbero essere annientati in un bagno di sangue, portando a un'autodistruzione senza precedenti.


Il Dramma del Terreno Arido

Il vero dramma è che nessuno, oggi, sta preparando l'uomo a livello interiore per affrontare un trauma trasformativo. Non lo fa la scuola, che si è ridotta a fabbrica di nozioni. Non lo fa la religione, annacquata nella burocrazia. Non lo fanno le strutture iniziatiche, spesso compromesse. Non lo fa la famiglia, spesso frammentata.

Il terreno è arido. Quando arriverà la crisi, non ci sarà il "sottosuolo" per far germogliare qualcosa di nuovo. Senza un lavoro individuale profondo, diffuso prima della catastrofe, l'Occidente non rinascerà; cambierà forma, probabilmente in peggio. E per fare questo lavoro oggi servirebbe la volontà di affrontare il dolore della trasformazione, che è esattamente la cosa che l'uomo europeo, in massa, rifiuta.

Ecco perché, temo, alla prossima grande crisi, la maggioranza non tornerà a essere "più umana"... ma solo più nuda.

Enrico Franceschetti
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