venerdì 10 ottobre 2025

Il cagnolino ammaestrato e la difficoltà di comunicazione

Questo post discende da un episodio appena accaduto, quando un familiare ha menzionato, quasi distrattamente, una serie di antichi cimeli casalinghi, distribuiti in dono a destra ed a sinistra senza particolare riguardo.
Un'affermazione innocua, che però ha agito come una chiave in una serratura arrugginita, sbloccando un'area della memoria che credevo sigillata o, quantomeno, mitigata dal tempo. È il ricordo, intriso di tenerezza, ma doloroso per la sua mancanza, di mia nonna, che tanta parte ha avuto nella mia vita affettiva ed educativa.
I ricordi della sua presenza si manifestano solo nell'intangibile della mente, poiché mio padre, del tutto disinteressato al valore affettivo degli oggetti, non si curò di conservarne alcuno, donandoli tutti. Questa riemersione, improvvisa e inaspettata, ha generato in me un'onda emotiva che si è tradotta in un tono di voce più vivace, non aggressivo, ma carico di una malcelata commozione, quasi un tentativo di dare corpo al ricordo attraverso l'enfasi.
La risposta del mio familiare non è stata, tuttavia, quella che l'emozione, seppur contenuta, pareva richiedere. Non una parola di comprensione, né un gesto di accoglienza o di conforto.
La reazione è stata, perentoria e sferzante: "Non alzare la voce."
Terrificante.
Certo. La "norma" è chiara. Non si alza la voce. E in effetti, nella pratica quotidiana, questa è una regola che osservo con scrupolosa attenzione, e chi mi conosce lo sa.
Ma il punto non è la regola in sé, quanto la sua applicazione in un contesto emotivo delicato. Mi chiedo: ci si aspetta forse che un ricordo doloroso, che scuote le fondamenta della mia, della nostra interiorità, non possa indurre una pur minima manifestazione emotiva esterna?
La domanda si fa strada, insistente: siamo condannati a essere, nel rapporto con i familiari, gli amici e il mondo intero, nient'altro che cagnolini ammaestrati? Esseri pronti a eseguire solo i comandi, a comportarsi esattamente come richiesto, senza la benché minima libertà di manifestare una fragilità, una debolezza, un dolore, un'emozione autentica?
La disconnessione è palese e preoccupante. La reazione del mio familiare ha bypassato completamente il contenuto emotivo del mio racconto, focalizzandosi esclusivamente sulla forma, sul tono. Il messaggio implicito è chiaro: l'emozione, se si manifesta in modo troppo evidente, è un disturbo, qualcosa da sedare, da ricondurre entro i margini della compostezza pretesa. Non è il dolore che viene ascoltato, ma il suo volume a essere giudicato.
Questa dinamica mi porta alla metafora del "cagnolino ammaestrato". L'emozione spontanea – il dolore, la gioia incontenibile, la rabbia – viene etichettata come un "comportamento indesiderato" da correggere, da addomesticare. Si deve stare zitti, composti, educati, indipendentemente da ciò che si prova. Questo non è controllo, è repressione. È la negazione di una parte essenziale del mio essere.
Per Pirandello, lo sappiamo bene, ogni individuo è costretto a indossare una o più maschere imposte dalla società, dalla famiglia, e persino da sé stesso. Questa maschera è l'immagine che gli altri si aspettano e percepiscono di noi, e che noi stessi finiamo per accettare come la nostra unica realtà. L'uomo, diventando un "personaggio", perde la sua autenticità, la sua essenza più profonda. Nel mio caso, la maschera sarebbe quella del "cagnolino ammaestrato", l'individuo che si comporta in modo socialmente accettabile, che non disturba, che non alza la voce, anche quando l'emozione lo vorrebbe. La maschera è una prigione, un abito che ci nasconde e ci soffoca.
Eppure, sono convinto che esista una tesi alternativa, un'affermazione di dignità emotiva. L'espressione delle emozioni, anche quelle scomode o dolorose, è una parte fondamentale della comunicazione autentica. Non è una mancanza di controllo, ma un segno di accettazione della propria e altrui fragilità. Il "cagnolino ammaestrato" rappresenta l'opposto: un individuo che ha imparato a reprimere per non disturbare, per conformarsi a un'idea di civiltà che privilegia la superficie sulla profondità.
Certo, si potrebbe argomentare che il controllo emotivo sia un segno di maturità, di rispetto per l'altro. Un tono di voce elevato può, oggettivamente, disturbare. Questa è la prospettiva che probabilmente ha guidato la risposta del mio familiare.
Ma in questo specifico contesto, tale approccio ha prodotto un effetto di distanza e non di vicinanza. Ha eretto un muro laddove poteva nascere un ponte, ha interrotto un flusso anziché accoglierlo.
La conclusione si impone con chiarezza dolorosa: il problema non era il tono della mia voce, ma l'incapacità o la riluttanza del mio interlocutore di accogliere l'emozione che quel tono esprimeva.
La comunicazione, infatti, non è solo uno scambio di informazioni asettiche, ma soprattutto di stati d'animo, di fragilità e di dolori che chiedono di essere visti e riconosciuti. Siamo disposti a rompere il patto implicito del "cagnolino ammaestrato" per permettere una comunicazione più autentica, anche a costo di affrontare e accogliere le complesse sfumature emotive che essa porta con sé? La domanda resta aperta, in attesa di una risposta che spesso, purtroppo, non arriva mai.
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