Io invece l’ho estroflessa, trasformandola in un suggerimento cautelativo.
Beh, non fatelo.
Non fatelo perché io so solo sbagliare.
Non ho mai pensato che giudicare, soppesare, misurare gli altri e le loro vicende fosse un compito facile. Tant’è che, una volta innamoratomi del diritto e tentata per due anni la preparazione per il concorso di uditore giudiziario (prima qualifica del neo magistrato), mi resi improvvisamente conto che quel compito non faceva per me.
Con quale coraggio, pensavo, posso pesare e assegnare un valore alle intenzioni e agli atti di un uomo?
Perché vedete, anche se amiamo pensare di essere liberi, di godere del libero arbitrio, e di poter scegliere il nostro futuro e i nostri comportamenti rimanendone esclusivamente responsabili, fin da giovane età mi ero reso conto che ciò non corrisponde affatto alla verità.
Noi siamo il risultato di una serie quasi infinita di azioni e reazioni, di eventi e conseguenze che, radicati nel nostro passato e nel nostro vissuto, condizionano scelte e condotte in maniera molto più significativa di quanto si pensi.
Una volta diventato avvocato, e avvicinatomi al mondo della mediazione e del counseling, ho preso conoscenza delle ultime scoperte delle neuroscienze, secondo le quali una qualunque decisione si basa su una fase di deliberazione in cui confrontiamo opzioni, valutiamo conseguenze, consideriamo obiettivi, bias interni, motivazioni, benefici e costi. Tuttavia, e ciò è fondamentale, durante questa deliberazione sono i processi inconsci, e non quelli consci, a preparare “la direzione” prima ancora che la coscienza addirittura se ne accorga.
Solo **dopo** che l’azione è avviata — attenzione — compare la coscienza dell’intenzione: l’esperienza soggettiva del “decidere”, del “voglio fare”. È un effetto collaterale, o comunque una parte integrata del processo, ma non la sua origine.
Le ricerche neuroscientifiche più solide — da Libet in poi, confermate da studi successivi con fMRI, EEG e anche registrazioni intracorticali — mostrano che l’attività neuronale che porta a un’azione comincia prima che la coscienza ne abbia consapevolezza. In pratica, il cervello “decide” o prepara la decisione alcune centinaia di millisecondi prima che tu senta di aver deciso.
Solo e soltanto a questo punto, finalmente entra in scena la corteccia prefrontale e parietale, che ha un ruolo cruciale: costruire una narrazione coerente. La coscienza, in questo senso, non genera la decisione, ma la interpreta, la razionalizza e la integra nella continuità dell’Io.
Riassumendo:
* le decisioni nascono dall’inconscio, non dalla logica;
* la ragione arriva dopo e costruisce una spiegazione coerente;
* l’educazione modella i presupposti su cui l’inconscio lavora, ma non lo comanda;
* traumi, memorie e condizionamenti profondi determinano gran parte del campo decisionale;
* quella che chiamiamo “volontà razionale” è solo una collaborazione imperfetta tra il cervello profondo e la sua interfaccia linguistica.
Tutto questo è frutto di ricerche scientifiche pubblicate e dimostrabili.
Io, nel mio profondo bisogno di relazione, in qualche modo lo avevo intuito fin dall’adolescenza. Non per merito, lo sottolineo, ma per bisogno.
Proprio questo bisogno mi ha costantemente spinto ad avvicinarmi all’altro, a cercarne la confidenza più profonda, ad accettarne comunque l’essere senza giudizio e senza valutazione, con il solo desiderio di capire, di comprendere il suo mondo interiore. A toccarne l'anima, insomma.
Tutto questo mi ha sicuramente aiutato nella mia professione, rendendomi un avvocato diverso e decisamente più efficace: a taluni questa cosa è piaciuta, a molti altri no. Una delle “accuse” che mi sono sentito rivolgere tante volte è stata: “avvocato, lei è una persona meravigliosa ma… troppo buona. Io voglio distruggere il mio avversario, lei non va bene per questo”.
In realtà non sono affatto "buono". Non è bontà, ma ricerca delle motivazioni e del giusto equilibrio. Tuttavia nel frattempo si perde l'incarico ed i soldi. Che pure servono, sapete?
Nonostante mi sia costato molto, ho sempre scelto di continuare sulla mia strada, giusta o sbagliata che fosse, perché ho sempre sentito che se avessi cambiato impostazione non sarei stato credibile. E, soprattutto, avrei provato un malessere troppo profondo per andare avanti.
Poi si è manifestato un ulteriore problema, che è quello che mi spinge a scrivere queste righe: mi sono accorto di non saper “giudicare” gli altri.
Giudicare un uomo o una donna significa valutarne l’idoneità rispetto a una condizione o a un progetto, pesarne le capacità operative e i possibili limiti.
Io non sono capace. Non lo sono perché in ognuno vedo del bello, delle potenzialità, delle capacità che sono lì, disponibili. E così, a meno di macroevidenze, van tutti bene.
Solo che poi, nella pratica, quando le cose si fanno difficili e le decisioni incombono, emergono le dinamiche profonde e… vengono fuori tendenze invisibili sul piano logico-cognitivo.
Così fallisco sistematicamente, a volte assai dolorosamente. Molto, molto dolorosamente. Non sapete quanto.
Mi sforzo di comprendere, capire, accogliere. Ma mi rendo conto che, negli atti concreti, le conseguenze sono spesso complicate e disfunzionali.
E io ne pago il prezzo, o ancor peggio, lo faccio pagare ad altri che si sono fidati di me e del mio “giudizio”.
Dunque l’unica conclusione possibile è quella: **non chiedetemi consigli, perché io sbaglio. Sbaglio assai di frequente. E la cosa tragica è che non so, anzi non voglio, fare diversamente.**
Non chiedetemi consigli, dunque. So solo sbagliare. Ma, se serve, posso almeno restare ed ascoltare.
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